Pavullo nel Frignano (MO), 8 ottobre 2022
I PARTITI “ANTI-SISTEMA” E LE LORO DELUSE PRETESE DI DOMINIO ALTERNATIVO…
A seguito della pesante batosta subita dai cosiddetti partiti “anti-sistema” alle elezioni politiche del 25 settembre 2022, batosta che ci ha salvato (per ora) dalle loro ben manifestate velleità di Potere risparmiandoci altresì (sempre e soltanto per ora) una nuova scalata alternativa in stile Cinque Stelle verso le più ambite posizioni di governo delle masse, vengono spontanee almeno due considerazioni.
In primo luogo occorre rendersi conto di quanto la manipolazione sociale attuata attraverso l’uso del linguaggio (quello che Orwell chiamava “neolingua”) appartenga da sempre a chiunque voglia sostituire il Potere esistente con il proprio. “Partito anti-sistema”, per esempio, è un evidentissimo ossimoro, una contraddizione in termini: come può essere “anti-sistema” un partito che partecipa alla farsa elettorale organizzata dal Sistema con lo scopo di governare il Sistema? Il termine, insomma, è soltanto uno stratagemma di marketing politico, uno specchietto per le allodole finalizzato a racimolare con l’inganno il maggiore consenso possibile: soprattutto di coloro che sono davvero stanchi del Sistema e vorrebbero vederlo crollare. Per fortuna, tanti elettori non si sono fatti abbindolare (il 36% si è rifiutato di recarsi alle urne), e questo – coi tempi che corrono – è già un bel risultato di consapevolezza. Parlare di partiti “anti-sistema” per definire partiti che concorrono alla gestione del Sistema (condividendone tutti i fondamenti, i valori, le categorie, e spesso persino i processi pervasivi che invadono la vita di tutti) è solo un imbroglio. Se per eliminare il Fascismo al potere al tempo di Mussolini si fosse proposto di diventare fascisti, di entrare nel Partito Nazionale Fascista e di fare poi la scalata alla sua direzione, chiunque avrebbe letto quella scelta politica come un consolidamento della dittatura. Tanto è vero che, per cercare di eliminare il Fascismo, i partigiani optarono per un’altra ben diversa soluzione… Che poi non siano riusciti nell’intento nulla toglie al principio innegabile secondo il quale per cercare di liberarsi da ciò che ci opprime si debba agire per l’eliminazione di ciò che ci opprime e non per il suo rafforzamento.
Eppure, ancora oggi, si sente ripetere la favola che ci racconta da sempre ogni organizzazione di potere: e cioè che una dittatura la si possa eliminare anche dall’interno. Non è vero! Crederlo è solo consolatorio e, immergendoci in una pia illusione, ci consegna soltanto l’aspirazione a rincorrere esche. Non è mai accaduto che un’organizzazione strutturata gerarchicamente sia stata abbattuta dall’interno; è stata semmai sostituita da un’altra analoga e contraria, o da una fazione in contrasto con quella al comando, ma mai eliminata dalla scena. E anche quando qualcuno ipotizzò di instaurare una Dittatura del Proletariato per eliminare la dittatura e affermare l’anarchia, successe poi che ad essere “eliminato” fu il proletariato e l’anarchia mentre rimase solida e immutata la dittatura. Perché ogni dittatura (comunista o capitalista che sia, scientista o confessionale che sia, umanista o animalista che sia) resta una dittatura, che “assorbe” tutto ciò che la sostiene rafforzandosi. Per schiodarla non serve connivenza o collaborazionismo, ma opposizione.
D’altra parte, e anche questo vale da sempre, il Potere è Potere e il problema del Potere non è mai in chi lo gestisce, bensì nel Potere stesso. Questo è il cuore del problema: il Potere trasforma in mascalzone chiunque se ne impossessi, dunque qualsiasi azione moralizzatrice che pretenda sostituire i governanti (attuali) con altri (buoni) è destinata a fallire in partenza. Tutte le persone che ambiscono a conquistare il Potere sono sempre in buonafede all’inizio. Si può forse pensare che Giulio Andreotti, quando diede avvio alla sua brillante carriera politica, pensasse di far ammazzare persone in stragi di Stato? O di far uccidere il suo collega di partito Aldo Moro?… Tutti all’origine sono in bella predisposizione: è il Potere appunto che li trasforma, perché Potere vuol dire privilegio, immunità penale, denaro, consenso, riconoscimento pubblico, successo, gloria, e ogni persona che ambisce al Potere mira a quegli obiettivi che crede di felicità.
Non esiste il Potere Buono, e questo è un fatto che faremmo meglio a stamparcelo bene in testa se vorremo veramente agire contro il Sistema. Fabrizio De André ce lo ha ricordato senza giri di parole quando, nel 1973, cantava: “bisogna farne di strada […] per essere così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”. E quando considerava l’attività di chi persistesse nel mostrarsi “così coglione” come una vera e propria “ginnastica di obbedienza”. Gli alternativi, i risentiti che fanno politica con la tastiera e con le crocette sulle schede elettorali, gli indispettiti democratici, gli ammutoliti della protesta che sanno solo reclamare più Costituzione e più Polizia, così come i non-violenti che non si curano delle violenze di Stato, sono in genere degli olimpionici in questa disciplina ginnica.
Il Potere trasforma il mascalzone chiunque se ne impossessi, o, come sosteneva più prosaicamente l’anarchico Carlo Cafiero: «Il potere ubriaca, ed i migliori, investiti di autorità, diventano pessimi». Purtroppo, per qualcuno questa trasformazione ignobile si palesa persino prima di essere investito di qualsiasi autorità istituzionale. Tanto per restare nell’attualità, basta guardare alle scaramucce pre-elettorali proprio dei partiti “anti-sistema”. Paragone che rifiutava qualsiasi unione con altre liste minori, credendo di poter dirigere una macchina di consenso già rodata nelle furbette arringhe di piazza durante la pandemi(nchi)a, e che accettava soltanto un’eventuale annessione degli altri partiti al suo: insomma, una specie di piemontizzazione alternativa (viva l’Unità d’Italia Anti-sistema!). E gli altri partiti che, rifiutando ovviamente di essere annessi al Partito Unico Anti-sistema, invece di indignarsi per le manovre di “poltrona” della Lista Alternativa di maggioranza (denunciandole apertamente), se ne stavano zitti, sicuri di raggiungere anche loro la fatidica quota del 3% per entrare in Parlamento e gestire poi con qualche poltrona sotto al culo i rapporti di potere con gli altri partecipanti alla Grande Abbuffata di Privilegi Parlamentari. “Torneremo nelle piazze!”, promettono ora i delusi e gli sconfitti. Certo, ora che le porte del Parlamento gli si sono state sbattute in faccia, torneranno nelle piazze…
Se non riusciamo a vedere queste losche manovre politiche anche in chi promette di esserne esente; se non riusciamo a vedere le censure che la “TV dei cittadini” pratica verso tutti i cittadini che non condividono la linea politica dei suoi dirigenti (proprio come fanno i grandi blocchi editoriali che allo stesso modo si accreditano come “servizio pubblico”); se non riusciamo ad accorgerci nemmeno del fatto che l’Italia non esiste proprio in quanto Stato indipendente essendo solo una Colonia, e che governarla significherà quindi soltanto eseguire gli ordini di chi tira le fila per davvero (leggi: grandi industrie petrol-farma-elettro-massoniche – tanto per parafrasare il mondo aziendalista di Fantozzi), allora ci meritiamo tutta la miseria esistenziale in cui siamo confinati, con le sue infinite illusioni alternative, le sue esche, i suoi anticonformistici rituali di soggezione e i suoi recuperatori sociali anti-sistema in veste di messia liberatori. Secondariamente, e per dare continuità alla prima considerazione, la batosta degli emuli dei Cinque Stelle, e prima di loro dei Partiti dalle Mani Pulite, dei Verdi, dei PCI, dei PSI e di tutta la congrega dei tanti “partiti anti-sistema” che negli anni hanno cercato di entrare nei gangli del Potere per cambiarlo rimanendo invece cambiati, ci porta l’attenzione proprio su chi siano gli Alternativi. Senza nessuna polemica propongo dunque qui in lettura lo stralcio di un mio articolo, pubblicato in NOSTRA NEMICA CIVILTÀ (Mimesis, 2018), articolo dunque scritto prima di queste elezioni politiche e di quelle precedenti (quelle del 2018), e che parla proprio di questo tema. Guardando la cosa dalla prospettiva di chi è critico radicale della civiltà l’articolo s’intitola: Per favore, non chiamateci “alternativi”. In tempi di Grandi Messinscene del Coronavirus ancora in auge, di guerre americane passate per aggressioni a popoli sovrani e di confluenze nel fascismo della Fratella d’Italia per liberarsi dal fascismo politico-sanitario di questo mondo sempre più insopportabile, una riflessione su chi siano gli Alternativi (e quale sia la loro funzione di recupero sociale) potrebbe non essere indifferente alle ragioni della nostra Libertà.
Buona lettura.
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Citazione pag. 241-255 dal libro “Nostra Nemica Civiltá”:
In un articolo di qualche tempo fa ho utilizzato la metafora del rubinetto aperto per sostenere quanto sia miope la prospettiva di agire sui sintomi dei problemi che ci si presentano disinteressandosi totalmente delle loro cause. Rimanendo sull’immagine dell’autostrada e sull’idea progressista dell’andare avanti, ne proverò a utilizzare un’altra altrettanto semplice per confermarne in ugual modo l’assurdità.
Supponiamo che un Tizio, al volante della sua automobile, notando l’accensione della spia luminosa del cruscotto indicante la riserva di carburante, invece di fermarsi a far benzina si attivi nel cercare un elettrauto allo scopo di eliminare subito quella fastidiosa lucina rossa. Chi di noi non lo giudicherebbe uno sprovveduto scalzacane dalla mentalità ristretta? A tutti infatti è chiaro che l’accensione della spia del carburante non sia la causa del problema, ma il suo sintomo; e che sopprimere quel sintomo disinteressandosi delle ragioni che l’hanno fatto sorgere (in questo caso l’esaurimento del combustibile) significhi soltanto procurarsi la certezza di
rimanere presto a piedi.
Ovviamente, possiamo anche ridere dell’automobilista improvvido che non riesce a vedere oltre il proprio naso, ma, come per quell’altro – che si limitava a raccogliere l’acqua versata a terra dallo sgorgante rubinetto senza chiuderlo –, quel che siamo stati educati a fare per mentalità pratica, è agire esattamente come lui: di fronte al presentarsi di un problema, la nostra prima e condizionata reazione è quella di prendercela coi suoi segnali esteriori, infischiandocene di ciò che li ha prodotti: deviarli, non guardarli in faccia, renderli meno duri o meno costrittivi è tutto quel che muove la nostra attività.
E chi è che ci persuade a guardare alle cose della vita con questa mentalità ottusa? I governi? Le Istituzioni in genere? Certamente gli enti e le organizzazioni di palazzo ottengono un immediato vantaggio nell’inculcarci un simile modo di pensare così poco lungimirante, perché più sprofonderemo nelle sabbie mobili dei nostri problemi, più saremo disposti a credere che solo le Sacre Istituzioni della Civiltà, coi loro mezzi inarrivabili, saranno in grado di soccorrerci.
La Medicina, che è una di queste Istituzioni (peraltro tra le più potenti, influenti e accreditate), è in prima linea in questa campagna ideologica. Insegnandoci a prendercela direttamente con le manifestazioni sintomatiche dei nostri malesseri (il mal di pancia, il capogiro, il vomito, la stipsi, l’infiammazione, la febbre), c’impedisce di guardare oltre, di trovare ad esempio le ragioni del nostro stare male nelle innaturali condizioni di vita che siamo costretti a condurre.
Contribuendo a consolidare la convinzione che i problemi che ci riguardano siano soltanto degli occasionali incidenti, separati dal contesto che li ha generati e passibili di essere sistemati con la semplice soppressione dei loro effetti esteriori (di essere cioè trattati, curati), la Società opera dunque per renderci permeabili a questa concezione limitata. In fondo, è anche così che si educano le persone alla compiacenza, alla devozione, alla soggezione verso le Istituzioni. Ed è anche così che le si deresponsabilizza del tutto, e cioè le si abitua a riporre fede negli ordinamenti sociali, ottenendo che interiorizzino la convinzione che tali ordinamenti siano inevitabili e inibendo dunque in loro ogni potenziale capacità di criticarli alla radice.
Tuttavia, non sono solo le strutture organizzate della Società a fare simili proseliti. L’azione civica dell’Apparato non è l’unica determinante che agisce in favore di questo depistaggio, perché, in genere, il grosso del “lavoro sporco” promana dalla fantasiosa intraprendenza dei cosiddetti “alternativi”. Questi rivali della cultura dominante operano dall’interno della civiltà con le sembianze di chi dichiara di opporvi una prospettiva critica, ma senza alcuna intenzione di liquidarla. Scopo precipuo, al contrario, è quello di perfezionarla un po’. Intrisi fin nel profondo dei valori e delle categorie del mondo incivilito, essi si guardano bene dal prendersela coi fondamenti di ciò che dicono di contestare; in questo modo, finiscono solo con lo stroncare ogni effettiva resistenza al mondo così com’è, recuperando alla causa della sua perpetuazione tutti coloro che, aderendo ai loro programmi, credono di allontanarsene o di dissentirvi.
Materialmente, chi sono gli alternativi? C’è chi li associa in toto alla Sinistra, perché questa in effetti è la sua “funzione” storica. In realtà, gli alternativi fanno parte della più grande famiglia dei riformisti, alla quale sono iscritti anche i sindacalisti di tutti i colori politici (compresi quelli anarchici), gli associazionisti di categoria, i progressisti, i modernisti, gli innovatori, i liberali e gli illuminati di ogni genere (inclusi i messia, i guru e gli altri santoni laici). Per dirla politicamente, gli alternativi sono coloro che vogliono tutto il marcio che c’è di questo Mondo-macchina, di questo
Sistema mangia-vita che opprime, addomestica e rende tutti schiavi, ma lo reclamano migliore. Vogliono l’Economia ma ecologica, la Tecnologia ma verde, lo Sfruttamento ma controllato. Allo stesso modo vogliono l’Energia “pulita”, la Scienza “olistica”, l’Educazione “democratica”, la Giustizia “giusta”. Tanto riflettono la “voce del padrone” che non biasimano nemmeno la Prostituzione purché sia autogestita e soggetta al pagamento delle tasse! Persino la Pornografia per loro è perfettamente accettabile:quella etica, ovviamente! A sentir i lamentosi cori di questi ratificatori di
tutto quel che c’è, anche il Potere sarebbe un attributo irrinunciabile alla vita sul pianeta Terra; ma attenzione: solo il “potere buono”!
Offrendosi come controcanto illusorio ai discorsi conformi delle Istituzioni, gli alternativi non si chiedono mai cosa siano l’Economia, la Tecnologia, l’Energia, la Giustizia, la Scienza, la Prostituzione, la Pornografia, il Potere. Li vogliono tutti e senza eccezioni, ma solo un po’ più verdi, slow, eco, ipo, soft, partecipati, democratici, etici. Come se bastasse aggiungere un prefisso, un suffisso o un aggettivo qualsiasi per rendere accettabile ciò che non lo è, essi si perdono nel mare degli ossimori, e cioè delle contraddizioni in termini.
Tutti sappiamo, ad esempio, che il commercio (e lo scambio equivalente di cui il commercio è figlio) è una pratica fondata su di una contrapposizione belligerante degli attori in campo, ognuno proteso a massimizzare i propri interessi contro quelli degli altri. Il ricorso a un corredo di modi di dire di stampo militaresco rende esplicita questa considerazione: si parla di “strategia di marketing”, di “campagna promozionale”, di “conquista del mercato”, di “guerra commerciale”. Ma agli alternativi tutto questo non importa. Per loro l’arte della mercanzia, lo scambio economico, il mercato non sono mai dei problemi in sé, perché basta renderli sostenibili e tutto
diventa immediatamente passabile e onesto. È solo così che il commercio, e cioè appunto il turpe mercimonio che ci mette tutti contro tutti, diventa “equo e solidale”; è solo così che il mercato diventa “locale”, che la competizione diventa “amichevole”, che il lavoro servile diventa “dignitoso”, che il consumo diventa “virtuoso” e che persino il profitto si trasforma in “giusto”. Come se lo strozzinaggio potesse esser mai giustificato da un utilizzo particolarmente attento del profitto ottenuto, per gli alternativi anche le banche (e cioè i luoghi in cui si pratica lo strozzinaggio legalizzato) possono diventare “etiche”; esattamente come il capitalismo, che assume tutta un’altra immagine se lo si definisce “filantropico” o “umanitario”.
Un po’ contrari, ma sotto sotto favorevoli, gli alternativi procedono in maniera alterna: prima nel senso di un’apparente opposizione, poi in quello di una svelata conservazione di tutto quel che la cultura/civiltà ha imposto. Gli slogan che utilizzano parlano per loro: “Fai la spesa, cambia il mondo”, promette una nota reclame di una grande struttura alimentare italiana in versione solidal. Appellandosi in maniera ancora più pacchiana all’esaltazione superficiale dei buoni sentimenti per far presa sui potenziali utenti, l’eco-pubblicità continua: “Cambia le regole del commercio globale. Trasforma l’ingiustizia in equità. Migliora la vita degli agricoltori e delle loro famiglie in alcuni dei Paesi più poveri del mondo. Investi nell’educazione dei bambini. Tutela l’ambiente”… Non c’è bisogno d’essere dei prestigiatori per accorgersi del trucco: commercio? Rivendita e traffico di merci per tutto il globo? Equità? Agricoltura? Famiglia? Stato? Povertà? Educazione dei bambini? Preservazione del paesaggio?… Non c’è dubbio: fare la spesa per cambiare il mondo fa proprio pensare a tutto un altro mondo!
Restare illusi e contenti a rincorrere i giochi di parole sembra insomma essere lo sport preferito dagli alternativi che, in quest’ottica, lungi dal mettere in discussione seriamente l’universo in cui viviamo, si accontentano di rinverdirlo un poco, di sistemarlo qua e là, di preservarlo meglio: di renderlo cioè più presentabile e accettabile. Potrebbero essere definiti loro stessi “sostenibili”, perché è in questo orizzonte di pura sopportabilità che si votano alla causa del riciclare, dello smaltire, del revisionare, del rottamare, dell’emendare, del riformare. Riformare, rinnovare, perpetuare! Dalla formula capitalista del “compra, consuma e muori” a quella alter-capitalista del “riforma, rinnova e rendi imperituro tutto ciò che ti sta uccidendo”, i
festival di celebrazione di questo universo in cancrena – da qualunque parte siano messi in piedi – suonano tutti lo stesso lugubre motivo. E finiscono col diventare perfettamente interscambiabili.
Infatti, se è facendo la spesa che è possibile cambiare il mondo, vuol dire che per cambiare il mondo occorre far la spesa. Così, mentre tutto corre verso la devastazione conclamata, il consumatore virtuoso si è già messo avanti con la “rivoluzione”, e fa sempre più la spesa. Naturalmente, è ovvio che per comprare eco-prodotti occorre che un qualche eco-imprenditore li eco-produca. Il grande supermercato alternativo del mondo migliore è dunque aperto a tutti. Chiunque lo voglia può saltar la barricata e passar da eco-consumatore a eco-produttore di merci alternative. Anche per questo, l’universo della riproposizione in forma “verde” di tutto quel che ci distrugge si trasforma: non è più soltanto un insieme di buone intenzioni, ma anche di buoni articoli. O, se si vuol guardar la cosa dall’altra parte del bancone, è anche una nuova opportunità di guadagno, una nuova chance d’investimento.
Già definito apertamente come green marketing, l’eco-business – imitazione verde del marketing classico – si presenta proprio come una sua “copia”. Simile per capacità di consumazione ambientale, identico per potenzialità invasiva ed equivalente per attitudine sublimante, non incide sulle cause della crisi che ci divora se non per aggravarla, rendendole ancor più irriconoscibili e giustificate. Come ha osservato bene Christian Fons: «sviluppo sostenibile, sistemazione del riciclaggio o preservazione dei paesaggi […] non fanno che rafforzare la logica mercantile intimandole di diventare amichevole verso la vita. Con il riciclaggio non si pone più la questione di quel che viene prodotto né quella della ragione di questa produzione; con lo sviluppo sostenibile non si interroga la totalità fittizia dell’economia, e con la preservazione dei paesaggi e delle specie si finisce col diventare custodi di museo»[1].
La riproposizione in forma compatibile di tutto ciò che è incompatibile con la vita su questo Pianeta resta incompatibile. D’altra parte, notava lo stesso Fons, la pratica di promuovere «la stessa cosa di quelli che essi dicono di sfidare, ma in meglio»[2], non solo rifiuta di mettere in discussione quel che c’è, ma «rafforza la vecchia illusione gauchista del contropotere e porta dritto all’autogestione della miseria»[3]. L’ossatura molle e l’essenza deleteria di tutto il pensiero alternativo muove proprio da questa aspirazione di rivalsa, di contropotere, di competizione con quel che ci sta facendo
morire. «È forse il caso di ricordare che l’appellativo di “consumatore” fu considerato come un insulto da tutta una generazione, prima della riabilitazione socialista di nozioni altrettanto disprezzate come quelle di grandezza nazionale, di impresa o di concorrenza capitalista?»[4].
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Trasformato il marcio in un prodotto “fermentato” dal gusto nuovo e frizzante, tutto diventa passibile di essere ingerito, e quindi comprato, venduto, smerciato. Infatti, in questo nuovo mare di verdi opportunità economiche, anche gli alternativi non disdegnano di nuotare, e in tanti si son tuffati a capofitto negli affari. Scopo principale: accaparrarsi almeno qualche briciola tra quelle che cadono dai tavoli dei banchetti allestiti dalle grandi corporazioni. Qualcuno di loro, ad esempio, ha smesso di lavorare e, con l’approccio che fu dei vecchi ambulanti imbroglioni che abbindolavano le
folle di creduloni al grido di “venghino, signori venghino!”, ora racimola denaro istituendo seminari a pagamento in cui spiega agli iscritti come sia possibile smettere di lavorare senza avere problemi di sussistenza: e cioè grazie ai soldi degli illusi che hanno pagato la quota d’iscrizione per ascoltarlo[5]. Qualcun altro, più signorilmente, inventa associazioni no profit con le quali crea corsi a pagamento (sempre no profit!) per spiegare come condurre una vita verde, includendovi magari anche una bella sezione di alimentazione alternativa (sempre rigorosamente fedele alle linee guida fissate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, così da evitare d’incorrere in deprecabili grane giudiziarie). Qualcun altro ancora si muove nel mondo dell’eco-associazionismo senza una meta fissa e senza alcuna propensione imprenditoriale: naviga qua e là allo scopo di accreditarsi come esperto di tutto quel che andrà per la maggiore. Qualcuno poi, decisamente più furbetto, non chiede mai compensi né altro denaro, ma crea strutture culturali stabili delle quali si mette al vertice con il taciuto intento di trasformarle un giorno in un bel partito politico (uno di quelli della “brava gente”, s’intende!) e tentare dunque la scalata più sicura: quella al Parlamento, e ai suoi inattaccabili privilegi economici e previdenziali.
Su questo fronte, anzi, c’è anche chi, ancor più intraprendente e smaliziato, ha deciso proprio di costituirlo un altro-nuovo-diverso partito politico (nel linguaggio alternativo si chiama “lista” o “movimento”). Con la certezza che oggi, in tempi di totale sterilizzazione di ogni capacità analitica, nessuno solleverà obiezioni politiche per criticare la pensata, e che anzi in tanti – al contrario – saluteranno questa iniziativa come uno “scendere in campo”, rompe ogni indugio, e con un bel colpo di spugna su tutte quelle inutili resistenze morali verso la cultura della delega, si presenta ufficialmente alle elezioni, catalizzando così l’attenzione sulla sua bella trovata e invitando tutti coloro che hanno a cuore le sue stesse rivendicazioni “anti-governative”
a riunirsi sotto l’egida di questa “nuova” (e mai pensata prima) campagna di “protesta” pro governo giusto. Quel che chiede, in fondo, è soltanto di sottoscrivere la lista (affinché sia legalmente ammessa), d’impegnarsi nella campagna elettorale (affinché la lista sia votata), di eleggerne i relativi candidati (affinché entrino nei posti che contano) riportando così – elegantemente, e senza spargimenti di sangue – le tante “pecorelle smarrite” della contestazione nell’ovile delle Istituzioni: tutti a dar di nuovo manforte a quel Sistema che ci sta distruggendo. In effetti, nessun governo saprebbe far di meglio per far rientrare nei ranghi gli sfiduciati e i critici.
Naturalmente, anche per chi non si spinge fino a questi livelli estremi di recupero sociale, e si limita soltanto a far da commerciante alternativo (o da “libero professionista green”), rimane lo stesso inesorabile destino: il trasformismo. Saltar la barricata per mettersi dalla parte dei “soldati”, infatti, non significa soltanto andare a fare il militare, ma diventarlo. Portare un interesse proprio nell’affare verde rende chiunque direttamente implicato nell’esito del proprio impegno, con la conseguenza che anche il suo modo di agire e di pensare cambia nel tempo, strutturandosi secondo la logica della bottega. Sempre più attento a non disturbare il pubblico e a presentarsi a esso in maniera accattivante, sempre più incline ad allontanare da sé passione, fervore e incazzatura (che non vendono!), egli finisce con l’infilarsi nelle stesse dinamiche di sopportazione dalle quali aveva creduto di liberarsi abbandonando la sua vecchia occupazione istituzionale per dedicarsi al marketing alternativo.
Anche nella buona fede, che è certamente lo stato d’animo che ispira la maggior parte delle persone che seguono la corrente della cooperazione con le Istituzioni, resta il fatto che insegnare agli altri ad affrontare i problemi prendendosela coi relativi sintomi invece che con le loro cause rimane un’attività tanto conveniente quanto ignobile. Qualunque sia il vantaggio che se ne ricava (economico, di potere, di considerazione, di celebrità), rimane un ostacolo in più, una diversione in più che allontana tutti dalla liberazione.
Ogni forma di “sostenibilità”, infatti, offre la sola certezza che quei problemi che essa intende sistemare in meglio non saranno mai risolti, e che il moltiplicarsi dei sintomi che seguiranno alla loro deviazione, costringeranno tutti a una rincorsa senza fine capace di favorire soltanto una loro maggior recrudescenza in termini di danni e di debilitazione generale procurata. Non esiste il commercio equo e solidale! Il commercio è commercio: nulla di sano e nulla di onesto. Allo stesso modo non esiste la Politica neutrale, il Lavoro dignitoso o il Consumo virtuoso! Così come non esistono le Banche etiche e nemmeno l’Energia pulita. Niente di ciò che regge la civiltà è sostenibile: non la Scienza, non la Tecnologia, non la Prostituzione, non la Pornografia; tanto meno l’Economia o il Potere.
Potere ed Economia, anzi, sono proprio le manifestazioni più infelici tra quelle che si vorrebbe convertire alla forma “buona”. Potere significa volontà di dominazione, di controllo, di soggezione; come potranno mai essere buoni la dominazione, il controllo e la soggezione? Economia è un’espressione che poggia su identiche prerogative di dominio. Etimologicamente parlando, infatti, il termine “economia” deriva dalla fusione di due vocaboli greci: oikos (che significa “casa”, la casa di tutti e cioè il
Pianeta) e nomos (che significa “norma”, e cioè amministrazione, gestione, governo). Economia, dunque, dal punto di vista etimologico, significa letteralmente: amministrazione del Pianeta in funzione del suo dominio umano. Detta ancora diversamente, l’Economia è quella scienza che, come ogni altra scienza, ci educa a un atteggiamento antropocentrico, e cioè ci addestra a pensare che l’essere umano sia il centro e il fine ultimo dell’universo: che sia dunque superiore a tutte le altre forme di vita esistenti, e che sia perfettamente legittimato a sottometterle e a sfruttarle tutte. L’Economia è quindi la scienza del dominio, del controllo e della soggezione del Pianeta operata dagli umani. Proprio come il Potere è il dominio degli umani sugli umani, l’Economia è il dominio degli umani sulla Terra. Potrà dunque mai essere “buona” la volontà di sottomissione, di controllo e di soggezione della Terra? Parlando di economia, poi, è immediato accorgersi di come il mondo incivilito si occupi sempre e soltanto di guardare agli effetti esteriori dei problemi che si presentano.
L’Economia, si è detto, educa all’antropocentrismo e allo sfruttamento del vivente; ci spinge in una totalizzante dimensione di guerra di tutti contro tutti finalizzata alla massimizzazione dei nostri interessi privati e, in questa prospettiva, c’istruisce al personalismo, all’insensibilità più assoluta verso le ragioni altrui, alla furberia, alla sfrontatezza nelle relazioni e al cinismo, che infatti dilagano nel mondo moderno. È una scienza che immiserisce così tanto i rapporti umani (e degli umani con il mondo intero) da essere stata ufficialmente definita “scienza triste”. Ebbene, invece di interrogarci sul perché esista questa scienza triste, su come si sia sviluppata nel tempo e sul perché le nostre vite siano sempre più in suo ostaggio, ci si occupa dei sintomi del problema: ci s’interessa di denaro, di crescita economica, di reddito; ci si angustia per la svalutazione monetaria, per l’inflazione, per l’azione del cuneo fiscale. In effetti, ascoltando i parlamentari, i presidenti del consiglio, i sindacalisti e gli economisti titolati, tutti parlano la stessa lingua: sostengono cioè che la crisi in cui siamo calati oggi sarebbe soltanto una perturbazione momentanea dovuta a qualche dissesto finanziario. Si tratterebbe, cioè, di una crisi monetaria, valutaria, di liquidità, per fronteggiare la quale occorre agire per salvare l’euro, per rafforzare i mercati, per dare tutela alle imprese, per far circolare soldi. Insomma, quel che ci raccontano senza tanti giri di parole è che per risolvere i problemi portati dall’Economia ci vuole ancora più Economia: ancora più denaro, appunto; ancora più investimenti, ancora più sviluppo, ancora più produzione, ancora più consumo…
Siamo all’inverosimile: com’è possibile sostenere, a ragion veduta, che per risolvere i problemi portati dall’Economia ci voglia ancor più Economia? Sarebbe come a dire che siccome l’inalazione di fibre di amianto provoca il carcinoma polmonare, per risolvere quel tipo di tumore occorra inalare ancor più fibre di amianto. Un delirio!
Eppure, dall’altra parte dello schieramento, gli alternativi raggiungono risultati ancor più strabilianti. Le premesse ideologiche restano invariate, perché anche loro non s’interrogano su cosa sia l’Economia, sul perché esista, su cosa ci fosse prima e sul perché ne siamo diventati tutti schiavi. Come gli altri esperti di cose monetarie, anche gli altermondisti del mondo così com’è ci raccontano che l’Economia c’è sempre stata, che è congenita alla natura umana, e che va appunto preservata perché non è possibile vivere senza. Ci parlano allo stesso modo di homo economicus, di “destino scritto”, e pur riconoscendo il dramma che l’Economia propaga coi suoi princìpi belligeranti, sanno solo dire che essa vada un poco mitigata, attenuata, adattata alle esigenze del contesto moderno. In un concetto solo: che vada migliorata. Anche a loro, quindi, non interessa cercare una stazione di servizio per riempire il serbatoio di benzina, ma solo rendere un po’ meno invadente la spia rossa della riserva sul cruscotto. Non interessa chiudere il rubinetto, ma solo raccogliere l’acqua con altre spugne alternative. E infatti, con un risultato ugualmente devastante, essi spiegano: per risolvere i problemi portati dall’Economia non ci vuole più Economia (come suggeriscono i governi), ma una nuova Economia.
Siamo alle solite: promuovere “la stessa cosa di quelli che essi dicono di sfidare, ma in meglio”. In questo senso, “nuovo” è semplicemente una parola magica, un concetto molto seducente. Infatti, la fede verso tutto ciò che è nuovo (neofilia) sublima quel bisogno di cambiamento che tutti sentiamo stringente in fondo al cuore, ma lo fa appunto senza stravolgere nulla di quel che c’è, senza metterlo in gioco. Anzi, suggerendo di proseguire per la stessa strada di coloro che si dice di sfidare, ma in meglio, si ottiene appunto solamente il risultato di legittimare quella strada, facendo apparire inevitabile tutto ciò che andrebbe invece rifiutato: se l’unica soluzione ai problemi portati dall’Economia è una “nuova” economia, ciò vuol dire che l’Economia è intoccabile. Addestrati a questo processo di approvazione subliminale, gli alternativi si
mostrano per quel che sono: agenti funzionali all’ordine delle cose; motori inarrestabili per la perpetuazione inconsapevole di quel che ci sta annientando.
D’altra parte, proprio perché la neofilia sublima un bisogno frustrato che nessuno intende comprendere né tanto meno provare a soddisfare (in questo caso il bisogno di vivere liberamente, senza Economia), non è certo un caso che essa spopoli. Diventa cioè il passe-partout, l’abracadabra, la formula miracolosa che apre i cuori afflitti di tutti. Che esca dalla bocca di un Presidente del Consiglio, di un mezzobusto da telegiornale, di un leader scaltro dell’opposizione o di un mercante alternativo, appena udiamo il suono soave e lieve della parola “nuovo” ne restiamo immediatamente ammaliati e non sentiamo più altre ragioni: seguiamo quelle vibrazioni sonore incantevoli proprio come facevano i ratti di Hamelin con le note del pifferaio magico; e tutti giù nel fiume ad annegare.
La prova delle capacità suadenti della neofilia si riscontra anche con riferimento al paradosso del carcinoma polmonare: affermare che per risolvere i problemi portati dall’Economia non serva più Economia ma una nuova Economia, è come sostenere che per risolvere i problemi portati da quel tumore non si debbano inalare più fibre di amianto, ma nuove fibre di amianto. Un delirio nel delirio!
Eppure è questo ciò che sentiamo proferire continuamente dagli alternativi. L’Economia è una pratica di uso e consumo del vivente? È un apprendistato che duca ai rapporti di dominio con la Terra ed esaurisce le relazioni umane mettendoci tutti contro tutti? Nessun problema: basta aggiungervi un elemento qualificativo e tutto diventa paradisiaco. Nasce così la “green” economy, la “slow” economy, la “eco” economy, l’economia “sociale”, l’economia “morale” e persino l’economia “della felicità”. Cosa poter desiderar di meglio perché tutto cambi restando inalterato?
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Vale lo stesso per la Tecnologia. Approfittando anche in questo caso della nostra bituale semplicità, si ricorre agli ossimori per ingannarci: si parla di tecnologia verde, di tecnologia ecologica, di tecnologia a basso impatto ambientale. Ma la tecnologia non può mai essere verde né ecologica né a basso impatto ambientale: per avere oggetti tecnologici, infatti, bisogna produrli, e per produrli si debbono sventrare montagne, depredare fiumi, disboscare foreste, inquinare l’ambiente. Inoltre, ci vogliono fabbriche e miniere per realizzarli, perché gli oggetti tecnologici non nascono spontaneamente. Sono composti da silicio, terre rare, coltan, alluminio (che proviene dalla bauxite). Dunque, per produrre oggetti tecnologici occorre estrarre questi (e altri) componenti dalla terra, attraverso miniere; conseguentemente, ci vogliono persone che vi lavorino. E siccome nessuna persona al mondo troverebbe piacevole lavorare 16-18 ore al giorno, tutti i giorni, nelle profondità buie e insalubri di una miniera per poter consentire agli altri di avere un bel telefonino o un sistema cruise control nell’automobile, ne consegue che per avere oggetti tecnologici occorre costringere
migliaia di persone a fare quello che nessuno vorrebbe fare. I mezzi “democratici” coi quali si ottiene questa “disponibilità” sono i soliti: il ricatto economico, la morsa della fame, la paura di non riuscire a garantire la sopravvivenza a se stessi e alla propria famiglia. Per dirla alla maniera sintetica di John Zerzan, quando parliamo di tecnologia dobbiamo avere ben presente che stiamo parlando di schiavitù. E questo risolve tutti i dubbi circa la possibilità di considerare sostenibile la tecnologia (e cioè la schiavitù).
Ciononostante, gli alternativi riescono sempre a dare alle loro dissertazioni un tono ancor più decadente di quello che il discorso su quel dato tema presenterebbe già da solo, e, pur di salvare la tecnologia, pur di darla per garantita e assodata, pur di evitare di domandarsi se sia sempre esistita e cosa eventualmente ci fosse prima, essi inventano il concetto di ipotecnologia. Anche questo trucco, però, non è difficile da smascherare. Cosa significa il prefisso “ipo” associato a un fenomeno in continuo sviluppo qual è la tecnologia? Nulla di nulla! Quel che oggi è ipo-tecnologico, ieri
era iper-tecnologico; così come quel che oggi è iper-tecnologico, domani sarà ipo-tecnologico di sicuro. Cosa cambia? La spada in metallo è uno strumento militare tecnologicamente più arretrato (ipo-tecnologico) rispetto alla baionetta, al mitragliatore o al drone, eppure, quando nel VI secolo a.C. gli abitanti inciviliti degli insediamenti Etruschi si stabilirono sulle coste tirreniche dell’Italia centrale, distrussero per sempre le foreste millenarie di leccio che vi si trovavano allo scopo di ottenere il fuoco necessario a forgiare proprio spade in metallo, che allora costituivano lo strumento migliore per espandere il loro dominio sulle popolazioni vicine.
La pretesa di cambiare il mondo preservandolo nelle sue fondamenta ideologiche, è una pretesa ridicola, perdente in partenza. E competere con quel che c’è per farlo meglio, significa solo competere: l’ennesima aspettativa di auto-legittimazione destinata a finire male.
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Con le loro rimostranze contenute (anche se apparentemente intransigenti), le loro sterili analisi prive di ogni causalità e le loro logiche aggregative (e spesso intimamente manipolatorie) gli alternativi riescono solo a far convogliare verso un ossequioso contraddittorio tutto lo sdegno che suscita questo mondo alla rovescia. A pieno vantaggio di chi trae profitto dalla devastazione e amministra l’insoddisfazione. Le loro istanze democraticiste, le loro insistite richieste di audizione rivolte alle autorità, le loro controtesi sostenute da controesperti altrettanto titolati (e che non vanno mai al cuore del problema), per non parlare dei progetti di compartecipazione con le istituzioni stesse in cui non di rado i paladini del mondo migliore finiscono per cadere o rintanarsi, sono il segno tangibile della loro (collabor)azione. «Le discussioni fra democratici di ogni parrocchia e governo», confermava a questo proposito Christian Fons[6], «servono [solo] a rendere credibili gli Stati come baluardi che proteggono i cittadini contro gli industriali, e a riabilitare un “progresso” già causa di tante devastazioni.
I controesperti, soprattutto i meglio intenzionati, sono in realtà indispensabili all’elaborazione del consenso che si vuole ottenere dalle popolazioni»[7]. In fondo, «rendere l’orrore più umano è il punto di convergenza dei pianificatori di questo mondo»[8].
L’alternativo non è mai in opposizione al mondo che ci sta opprimendo. Forse a parole sì: quelle non costano nulla, e se ne possono sprecare all’infinito. Ma sotto sotto, e aldilà dei toni di facciata e dei proclami utilizzati, l’alternativo crede nella civiltà: si affida ai suoi oracoli (umani, simbolici, tecnologici), confida nei suoi valori, difende i suoi mezzi di supposta conoscenza del mondo e i suoi strumenti di gestione della gente. Perché egli crede nella Scienza e nel bisogno di gestire le persone. E crede anche all’indispensabilità di tutti quei dispositivi di alleggerimento che questo mondo elargisce con grande generosità proprio per far tollerare a tutti una situazione intollerabile: arte, televisione, sport, lavoro, consumo, buona tavola, escursionismo, mercificazione del corpo, socialità online, cultura dello sballo…
Al pari di tutti gli altri, anche l’alternativo sente la civiltà come protettiva, necessaria, insostituibile; ne stima e ne benedice il carattere globale.
Esattamente come stima e sente incontestabili i suoi processi di sviluppo e di deflagrazione. Non sarebbe mai disposto a rinunciare a nulla di ciò che la modernità gli propina spogliandolo ogni giorno delle sua abilità di specie: sia pure essa una fornitura di gas proveniente dall’altra parte del globo, una bella casa ben arredata, l’aria condizionata o un corso di meditazione trascendentale. L’idea di rovesciare il mondo che ci sta uccidendo gli pare una pensata estremista, controproducente, ridicola; perché nelle convinzioni intime dell’alternativo non è la civiltà a essere estremista, controproducente e ridicola, ma chi vi si ribella. Affetto come tutti gli altri da quello che ho chiamato il “pregiudizio hobbesiano”, anche l’alternativo pensa che gli umani, lasciati liberi (allo stato brado), non sarebbero in grado di dare continuità alla loro specie, e si consumerebbero, si farebbero la guerra, si sbranerebbero tra loro in una quotidiana lotta fratricida senza limiti. Non vede che questo è ciò che accade oggi, che gli individui non vivono allo stato brado bensì in gabbia. Ma è anche per
via di questo pregiudizio che l’alternativo, quando nota che qualcosa non funziona a questo mondo – e sono tante le cose che non vanno – pensa sempre che sia per colpa degli umani: depoliticizzando le ragioni della sofferenza, se le riversa addosso, riducendosi così a pensare che sia solo possibile provare a rintuzzare un poco il male, a tollerarlo meglio, a deviarlo su sfoghi e rimozioni (e cioè su quei dispositivi di alleggerimento di cui sopra). Perché a lui, in fondo, piace il mondo così com’è; e mentre
spera che lo si possa migliorare ancora, non lo contesta mai e non si attiva certo per toglierlo di mezzo. Però – e su questo è veramente intransigente – a lui non piacciono le conseguenze incontrollabili di questa avanzante società moderna, e se ne duole, protesta, s’indigna perfino.
Per dirla in altro modo, l’alternativo non si oppone alla società produttivista e di massa: la vuole proprio così, diffusa e dispiegata ovunque, potente e aggressiva; però senza che ciò comporti isolamento e spersonalizzazione umana. Non si oppone alla logica di sfruttamento e mercificazione che promana da supermercati e centri commerciali: desidera quelle strutture e le vuole proprio così, coi loro cibi industriali, in scatola, già pronti a tutte le ore del giorno e della notte; però senza sindrome della mucca pazza.
L’alternativo non si oppone all’elettrificazione del Pianeta: la invoca con tutte le sue forze e la difende a tutti i costi; però senza centrali nucleari e genocidi. Egli, del resto, mica intende togliersi lo sfizio di poter fare il turista per tutto il globo, solo non vuole l’inquinamento da traffico aereo; mica si propone di rinunciare a spargere il mondo di “enclave alla coca-cola”, solo non vuole che si scatenino proteste. E si compiace del dominio occidentale sul resto della Terra, ma lo disturbano un po’ le guerre, il terrorismo, gli sbarchi di migranti e tutti gli altri “inconvenienti” che poi sfortunatamente si presentano ogni volta. Perché l’alternativo è sensibilissimo nel disdegnar le stragi umane portate dal terrore religioso, e si sente coinvolto in questa
guerra mondiale del Male contro il Bene, ma il fatto d’esser minacciato quotidianamente da tutta una sequela di azioni di guerra portate dalle armi industriali non lo tocca affatto.
Sia chiaro: terroristi, mercenari, dittatori e devastatori di ogni tipo sono detestabili a priori, senza discussioni. Ma lo sono anche quei “neo-crociati” del Mondo Ricco che parlano di cambiamento, e che poi hanno soltanto mutato i loro crocifissi in simboli New Age, ossimori, computer, vaccini, OGM, illusioni di affrancamento dell’umanità dalla fatica-vecchiaiamorte, e agiscono da conquistadores planetari con le stesse dinamiche e la stessa capacità di penetrazione dei missionari religiosi.
L’indignazione moralista e il giustizialismo, esattamente come la cialtroneria democraticista e la finta rottura con tutto ciò che ci rende inermi, non sono altro che dichiarazioni di ossequio al mondo che ci sta riducendo a macchine. Convertire il capitalismo alla bontà, prendendone la parte “sana” per metterlo a disposizione di tutti, è proprio ciò che il Mondo Nuovo confida di raggiungere. Che siano le sue vittime, oggi, a prendersi l’impegno d’inseguir questo obiettivo, parla più di ogni possibile discorso.
Opporsi a tutto ciò che ci distrugge senza mettere in conto alcuna distruzione non è solo un’aspettativa assurda, ma un’illusione. E mentre l’alternativo si affanna nel rincorrere questa lustre chimera, e si occupa di rimediare a questo, di aggiustare quello e di sistemar quell’altro, la vana e ingannevole speranza di poter mettere tutto a posto senza stravolgimenti svanisce ogni volta in maniera inesorabile, lasciandolo con l’amaro in bocca. Nonostante le infinite materializzazioni dei suoi tanti eco-progetti, infatti, nel mondo tutto prosegue inalterato, e anche con le auto ibride, i pannelli solari, le pale eoliche, l’eco-turismo, l’agricoltura bio, lo slow-food e l’ipo-tecnologia, tutto continua a correre sulla via dell’iper-distruzione. Come se potesse mai esistere un governo senza ingiustizia, una polizia senza crimine, una società di massa senza burocrazia, un’industrializzazione senza sfruttamento e una schiavitù senza disperazione, ai vecchi sintomi che vengono deviati se ne aggiungono di nuovi e tutto prende la forma del supplizio.
E infatti, in un mondo sempre più malato i sintomi semplicemente infuriano: tossicità, cambiamenti climatici, fame nel mondo, genocidi, guerre; ma anche xenofobia, sessismo, autoritarismo, scientismo, tecnofilia, neofilia, consumismo, mercificazione della vita, svalutazione dell’integrità personale, servitù. Se non faremo lo sforzo di cercare di capire cosa origina tutti questi sintomi e continueremo a fare come fanno i governi, i loro mèntori, i loro paparazzi e i recuperatori sociali di ogni risma e bandiera, la situazione degenererà ulteriormente. Già oggi, lo denunciava Bertolt Brecht
con una metafora semplicemente impareggiabile, stiamo segando il ramo sul quale siamo seduti.
Se vogliamo evitare di finire di sotto, non servirà segare più lentamente, e nemmeno servirà utilizzare una sega a energia solare: occorre smettere di segare subito! Smettere di segare subito e prendere la direzione opposta a quella che ci ha condotto fino alla follia di cominciare a tagliare il ramo sul quale siamo seduti. Perché la civiltà, in ultima analisi, è proprio una follia: o sapremo fermare questa follia o non avremo scampo.
[1] Cfr. C. FONS, O.G.M. Ordine Genetico Mondiale (2001), Quattrocentoquindici,
Torino 2004, pag. 13.
[2] Ibidem, pag. 114.
[3] Ibidem, pag. 153.
[4] Ibidem, pag. 94.
[5] 7 Un tempo girava una simpatica barzelletta su questo tema. C’era una volta un Tizio che si vantava di aver smesso di lavorare, e andava in giro a raccontare a tutti che era semplicissimo farlo, tanto che lui stesso aveva trovato la formula giusta per non lavorare mai più senza avere alcun problema di sussistenza. Un giorno un signore, incuriosito da quelle parole, gli chiese come avesse fatto. “Facile!”, gli rispose il venditore di fumo, “Se mi dai 100 euro te lo dirò”. Il malcapitato, irresistibilmente attratto dalla possibilità di vivere senza dover più lavorare, glieli diede, e il furbone gli spiegò: “Basta raccontare in giro che hai trovato un modo per smettere di lavorare pur senza avere problemi di sussistenza e, quando ti chiederanno quale sia questo metodo sicuro, farti dare 100 euro per dirgli quello che ti sto dicendo ora!”.
[6] Cfr. C. FONS, O.G.M., cit., pag. 152.
[7] Ibidem, pag. 152.
[8] Ibidem, pag. 111.