Modena, 24 maggio 2020
LA DISTOPIA È ADESSO: SI CHIAMA SCIENTOCRAZIA!...
ED È SOLO L’INIZIO
Una distorta visione intellettuale che gira nei salotti bene dell’intellighenzia postmoderna, considera la distopia come l’esito finito male di un ideale utopico: si voleva un mondo migliore e invece ne è uscito uno terribile. Non è così. Quella che il filosofo John Stuart Mill nel 1868 chiamò “distopia”, e che il suo maestro di utilitarismo – Jeremy Bentham (l’inventore del Panopticon) – cinquant’anni prima aveva definito “cacotopia”, non descrive il fallimento di un’utopia, ma il suo ribaltamento: descrive cioè l’affermazione di un’anti-utopia, di una contro-utopia che rivendica il valore della regressione sociale e dell’abbruttimento umano come fondamento della società. Non si tratta quindi del tracollo di un idea caduta in disgrazia e trasformata in un incubo , ma dell’affermazione ideologica dell’incubo come forma di relazione/organizzazione/sperimentazione sociale. Il tutto, però, nella piena e diffusa accettazione di questo incubo da parte dei suoi sudditi.
Infatti, ciò che caratterizza la distopia (e la rende tale), non è soltanto il fatto che essa, configurando una società che peggio non potrebbe esistere, rappresenti il contrario di quella perfetta incarnata dall’Utopia, quanto la circostanza che quella società terribile sia invocata dalla popolazione come la migliore società possibile, la più giusta, quella superiore ad ogni altra.
Quando la vita insopportabile reclama ancora la sua insopportabilità, manca un requisito essenziale alla brutalità assoluta: il consenso dei brutalizzati. Il passaggio da prigionieri a schiavi non è ancora completato del tutto. Lo schiavo, infatti, non si lamenta delle restrizioni impostegli: le approva, le considera indispensabili, le difende; o quantomeno le scusa, le libera da quell’alone di aggressività che le rende moleste fino a non trovarle più insopportabili.
Quel che si riscontra, in questi giorni di Fase 2, nei discorsi comuni di chi analizza con indulgenza la sospensione di tutte le libertà umane disposte dai governi del mondo, riflette spesso questa progressiva calata nell’abbruttimento giustificato: “Cosa avrebbe potuto fare Conte davanti all’emergenza di pandemia mondiale?”, si chiede il cittadino succube. “Fregarsene della nostra salute e lasciare tutti liberi?”. Questa è appunto la psicologia dello schiavo, ed è grazie a un simile humus intellettuale che la società vira verso la sua forma distopica.
Senza nemmeno curarsi di capire lo stato generale delle cose, lo schiavo non pone questioni, non discute, non si ribella: ha fede nella parola del governo; ha fede nelle rassicurazioni del governo; ha fede anche nei provvedimenti risolutivi del governo, che difende persino contro l’istintivo senso di ribellione all’autorità prodotto dall’abuso, e che è lui stesso a sedare dentro di sé prima ancora che possa essere la polizia a farlo. Allo schiavo va sempre bene quel che passa il convento, e si preoccupa non tanto della propria condizione caduta in disgrazia, ma della perdita d’immagine che il governo subisce davanti all’impopolarità delle proprie decisioni: povero governo, appunto! Cosa avrebbe mai potuto fare?
Il veicolo psicologico che traghetta il prigioniero dalla prigionia alla schiavitù può assumere dunque diverse forme: quella dello “spirito di sopportazione” a oltranza; quella della dedizione verso i superiori e le loro decisioni; quella del sentimento d’attaccamento ai valori della nazione prima ancora che alla soddisfazione delle sue esigenze indispensabili. Ma può assumere anche la forma della semplice “scappatoia” che evita di affrontare le cause del problema; quella della “valvola di sfogo” che alleggerisce il peso dell’adattamento; quella dell’uso terapeutico di persone, cose e natura che – attraverso la logica del consumo di cui è fatto – sembra lenire lo strazio della sofferenza; quella della “illusione di felicità” che registra l’annullamento di ogni consapevolezza garantendo il superamento del problema della rassegnazione. In ogni caso, qualunque sia la forma di ciò che intimamente trasforma il prigioniero in schiavo, essa si esprime sempre esternamente nel bisogno ansioso di giustificare tutto quel che viene imposto dall’amministrazione carceraria.
Ingabbiato in questo atteggiamento di arrendevolezza, il prigioniero cessa di vedere la propria prigionia come un problema, e comincia a tollerarla. Non si preoccupa più di liberarsene, ma di starci dentro. Finirà con l’accettarla e, confrontandola con altre forme di prigionia ancora peggiori della sua, la difenderà. Senza scappatoie, senza forme di consolazione, senza rimedi palliativi e altre forme di mitigazione della sofferenza, la sofferenza reclamerebbe la fine della sofferenza. Grazie a questi rimedi di soggezione, invece, essa si attenua diventando sopportabile.
È così che, a forza di mitigare invece di rompere, a forza di sopportare invece d’incazzarsi, a forza di scusare sempre tutto invece di mettere in discussione quel che c’è, abbiamo perduto la capacità di immaginare la libertà dietro alle sbarre invisibili di questo mondo intollerabile, e ci occupiamo soltanto di migliorarlo cercando di rendere più tollerabile l’intollerabile. Ed è anche così che ci ritroviamo ad accettar le briciole di quel che un tempo godevamo dandolo per acquisito (benessere; salute; possibilità di spostamento, riunione, manifestazione del pensiero), cedendo definitivamente le armi. La domesticazione, col suo corso progressivo, giunge al capolinea. La distopia è la società perfettamente addomesticata, perfettamente civilizzata; e la mitigazione della sofferenza è il veicolo di soggezione più immediato all’accettazione della distopia: la sua consacrazione sull’altare della fine di quella capacità reattiva che faceva ancora sentire inaccettabile l’inaccettabile.
Il grande moloch che presiede al processo di fidelizzazione all’inaccettabile è l’idea che lo stato delle cose sia inevitabile. Contro l’inevitabile resta solo la rassegnazione, l’adattamento continuo, l’accomodamento, la sopportazione a oltranza appunto. Si cedono le armi, quindi, non tanto per resa spontanea, quanto per induzione a credere che non ci sia più nulla da fare per cambiare radicalmente lo stato delle cose. Infatti, nella misura in cui il miglioramento delle cose fa ancora credere a un cambiamento possibile, trascinando invece il prigioniero verso il consolidamento della status quo e dunque verso una graduale caduta nella schiavitù, la ritenuta impossibilità di modificare radicalmente il corso delle cose chiude subito i portoni della battaglia siglando la resa incondizionata del prigioniero verso l’accettazione della distopia.
Se, come ha detto qualcuno, al tempo del capitalismo “è più facile immaginare la fine del mondo che non la fine del capitalismo”, occorre allora adattarsi al capitalismo: punto e basta. Quello slogan tanto caro a Margaret Thatcher, There Is No Alternative, e ormai assunto in pianta stabile anche dalla Sinistra (che ritiene appunto impensabile una vita fuori dal capitalismo), pervade senza soluzione di continuità tutto e tutti. Max Fisher lo chiamava “realismo capitalista”, ed è questa ideologia della resa senza condizioni (che qualcuno chiama semplicemente postmodernismo ) a chiedere a tutti un adattamento continuo al mondo così com’è, ai suoi valori, alle sue categorie considerate assolute, ai suoi poteri ritenuti insuperabili, alle sue Istituzioni passate per universali, e che induce tutti a rassegnarsi a tutto: al cinismo che imperversa, alla disperazione che ribolle silenziosa sotto il vuoto di cui è composta un’esistenza sempre più superficiale e meccanica; allo squallore di una sopravvivenza passata per libertà e calata nella più totale diseguaglianza sociale e nella più aggressiva distruzione di tutto ciò che è naturale. «Per come lo concepisco – scriveva appunto Fisher –, il realismo capitalista […] È più un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione»[1]. Dietro a questa barriera invisibile che non ammette escursioni di sorta, ogni pathos liberatorio è strangolato sul nascere, eroso nelle sue fondamenta, spento nella sua vitalità.
Cosa muove allora questo realismo capitalista? Cosa attiva l’adesione incondizionata allo slogan della Thatcher tanto da rendere impensata una vita fuori dalla civiltà? È la sublimazione di forme ataviche di relazione dell’individuo con se stesso e con il mondo naturale che la domesticazione sfrutta, riproducendole in forma culturale, per mettere tutti con le spalle al muro.
Mi spiego meglio. In Natura è normale pensare che se oggi piove si debba accettare la giornata uggiosa: possiamo organizzarci in un certo modo o in un altro, ma che la pioggia cada non è discutibile. In Natura se un individuo è morto, è morto; se quell’ansa del fiume è pericolosa da attraversare, è pericolosa; se una pianta è velenosa, è velenosa e dunque non è per niente salutare far finta del contrario o provare a opporvisi. Ancora: in Natura, se la nostra epiglottide non si chiudesse all’atto della deglutizione, ci strozzeremmo: non ci possono essere degli epiglottidisti che sostengano questa tesi e degli anti-epiglottidisti che la neghino.
Sfruttando la nostra congenita inclinazione ad accettare come dato di fatto quel che in Natura esiste, il processo di domesticazione ci induce sin dall’infanzia a considerare inevitabile tutto ciò che è invece la Cultura a rifilarci: dalla Famiglia alla Monogamia; dall’Autorità al Governo; dall’Economia alla Tecnologia; dalla Moda al Costume sociale stabilito da una certa mentalità. Così come in un sistema capitalista è impensabile immaginare la fine del capitalismo, in quello islamico è impensabile la fine dell’Islamismo esattamente come in quello cristiano medioevale era impossibile pensare alla fine del cristianesimo. Per dirla in modo semplice, in un mondo civilizzato siamo tutti educati a credere impossibile una vita fuori dalla civiltà. E all’interno di questa prospettiva sospinta occultamente nei nostri cuori sin dalla più tenera età, anche la Scienza e la Medicina, proprio come fossero una pioggia inevitabile o un sentimento amoroso verso qualcuno, ci paiono rientrare nell’ordine naturale delle cose: lì pronte solo per essere considerate come parte “inevitabile” della nostra vita.
Invece la Cultura non è per niente inevitabile. Quella che chiamiamo Cultura, e cioè la simbologia (ovvero la sostituzione del reale con simboli quali parole, numeri, tempo, arte, rito, mito, religione, denaro, potere, eccetera), non è un “dato di fatto naturale”, ma una sovrastruttura ideologica che, in quanto tale, è essenzialmente fondata sul distacco dall’immediatezza (sulla sostituzione del reale con simboli). La Cultura, ha analizzato John Zerzan, «con la distorsione [che impone] e il distanziamento che ne consegue, è ideologica in un senso primario e originario; ogni successiva ideologia è un’eco di questa»[2]. Tale sistema ideologico di rappresentazione del reale, essenza stessa della civiltà, mentre distrugge coi suoi ritrovati tecnologici il mondo naturale che vive fuori di noi, invade anche il nostro mondo interiore rendendo impossibile ogni altra prospettiva cognitiva. Proprio per questo la Cultura è conformista nel suo significato più profondo: serve cioè a conformare tutti alle idee, ai valori, alle categorie, alla mentalità stabilita in quel dato momento e in quel dato luogo; serve insomma a mantenerci nei ranghi di un certo modo di vedere le cose.
Diversamente dalla Natura, dunque, la Cultura non è mai una madre accogliente e premurosa che si occupi dei propri figli, ma una matrigna perfida e spietata che mira a sovrapporsi alla Natura stessa per metterla da parte. Impone cioè a tutti di ripudiare continuamente il reale, compresa persino la nostra natura animale, a favore di una realtà sempre più definita simbolicamente (lo Stato, il Sistema, il bene comune, la legge, l’ordine pubblico, la ricchezza, l’uomo nuovo, eccetera). Quest’ultima evidenza, se un tempo tesseva la trama nascosta della simbologia, oggi che viviamo nel mondo della “realtà virtuale” e della “intelligenza artificiale” ci è molto più semplice coglierla. La cultura, diventata tecno-cultura, ha tolto la maschera. Il suo fine non è più invisibile e occulto: togliere di mezzo la Natura e rimpiazzarla con un universo totalmente artificiale che ne riproduca i caratteri e le sembianze, così da consentire a quella parte dell’umanità che si è autoproclamata Signora della Terra, di tenerla in pugno e manipolarla meglio, controllarla tutta, gestirla direttamente con i propri strumenti e il proprio potere. La distopia, che è appunto la società perfettamente addomesticata, è prima di tutto una società completamente liberata da tutto ciò che è naturale, compreso appunto lo spirito umano, il cuore vivo, la mente aperta, il corpo recettivo e sensibile.
Il distanziamento sociale, la mascherina ospedaliera in faccia, i guanti plastificati addosso, l’indicazione di lavarsi le mani con l’Amuchina (che è varechina diluita) o di starnutire rigorosamente nel fazzoletto di carta per poi gettarlo subito nella spazzatura prima che qualcuno si ammali, sono tutti rituali di soggezione che non hanno alcuna funzione sanitaria. Servono solo per imprimerci nella coscienza una convinzione: quella che l’essere umano sia inabile alla vita naturale. Se l’essere umano vuole vivere senza rischio – dice appunto la Cultura – deve indossare presidi tecnologici, assumere farmaci, ascoltare le prescrizioni degli specialisti accreditati e adottare comportamenti prescritti anche se innaturali. Il bacio, la stretta di mano, l’abbraccio sono letali; gli unguenti miracolosi, la reclusione in casa lontano dai raggi del sole, le pezze alla bocca che impediscono la respirazione, le sostanze sintetizzate dalla chimica per curare e sterilizzare sono invece soluzioni salvifiche. Del resto, la stessa idea di “igiene” intesa come “sterilizzazione”, dice tutto a proposito del potere mortifero della Cultura: la vita è vitalità, non sterilità; la sterilità è la morte della vita.
Come tanti altri presidi dati per assodati nel tempo (dai vestiti che coprono le nudità fino all’uso del denaro), le prescrizioni della Cultura servono a farci credere che non si possa vivere senza Cultura. E noi, che siamo pressoché sopraffatti dalla simbologia (ormai usiamo simboli persino per cercare di capire il significato dei simboli), crediamo a questa grande balla: l’essere umano è inabile alla vita naturale; se non fosse continuamente presidiato, aiutato, sostenuto, curato dalla Cultura che interviene a colmare le lacune della povera Natura, sarebbe spacciato. Pertanto, se l’essere umano vuole vivere senza trovarsi costantemente a rischio, in difetto o semplicemente davanti ai propri insopportabili limiti organici e fisiologici, deve fare appello alla Cultura: deve cioè imparare a pensare simbolicamente, indossare presidi tecnologici, assumere farmaci, ascoltare le prescrizioni degli specialisti accreditati e adottare i prescritti comportamenti anche se innaturali ripudiando la propria animalità.
Questa lezione, dura da essere recepita da parte di quei soggetti che ancora reclamano la loro condizione umana, con la Grande Messinscena del coronavirus ha ottenuto un deciso avanzamento di consenso. In effetti, oggi ancor più di ieri, non solo accettiamo di vivere in un contesto reso sempre più artificiale e sterile, ma invochiamo un po’ di più quello stesso contesto. Che ci sembra appunto ancor più familiare. Ci sentiamo cioè rassicurati per il fatto che esistano queste soluzioni industriali che ci salvano la vita, che ci consentono la vita e che ci proteggono dal Male (Amen!). Siamo felici che il Progresso ci abbia dispensato tutte queste delizie: che esse siano state pensate, inventate, prodotte e vendute. E facciamo ricorso ad esse non già perché un potere ce le imponga, ma perché siamo intimamente convinti che l’umanità non potrebbe vivere senza (ancora oggi, se si esclude la Regione Campania, le mascherine ospedaliere non sono obbligatorie fuori dai locali aperti al pubblico, eppure la maggior parte delle persone – compresi tanti “rivoluzionari” anti-sistema – le adottano spontaneamente ovunque).
“La paura fa novanta”, si dice. Approfittando della nostra paura, ma anche di quella istigata sfiducia verso la Natura che la Cultura (attraverso il processo di domesticazione) ci garantisce (e che sfocia nella fede verso la Cultura stessa), ci ritroviamo ad essere i primi a dare il nostro indispensabile apporto alla Grande Guerra che da diecimila anni c’insegna proprio questo: la Natura è maligna, pericolosa, assassina, infida; va pertanto piegata, sopraffatta, sostituita, migliorata dalla Cultura e dai suoi rimedi. È esattamente il Regnum hominis immaginato da Francis Bacon e descritto nel primo romanzo distopico della storia occidentale: La Nuova Atlantide (1627).
Quella truppa armata che si prefigge di sottomettere al suo potere tutto quel che esiste, e che noi chiamiamo Cultura-civiltà, continua dunque indisturbata a inanellare vittorie. La Grande Messinscena del coronavirus rappresenta appunto l’ultima, ma anche la più fine e profonda, di queste campagne dall’esito trionfante: quella che lascerà sulla nostra pelle i segni più indelebili e i lividi più grossi.
Se fino a ieri, infatti, erano gli alberi assassini a uccidere gli automobilisti usciti dalla carreggiata con la loro auto; se fino a ieri era il cielo nemico ad essere in guerra contro i turisti quando il weekend cominciava con un temporale; se fino a ieri avevamo la granitica certezza che era stato un iceberg il problema del Titanic e che è stata un’onda anomala a creare il disastro nucleare di Fukushima, oggi non abbiamo dubbi: i virus, questi fantomatici esseri ben rappresentati nelle fotografie dei microscopi elettronici degli scienziati che li hanno scovati dai loro nascondigli segreti (ove sicuramente si assembravano), portano le malattie infettive, le attaccano agli umani e agli altri esseri viventi solo per ucciderli; e contro queste aggressioni inaspettate, improvvise, inevitabili e inusitate non c’è modo di opporre nulla di naturale. La salute non è un fatto di responsabilità individuale, ma di fortuna: chi è beccato dal virus, non può farci nulla, se non ricorrere agli sciamani in càmice bianco e sperare che coi loro ricoveri e loro trattamenti (ispezioni, avvelenamenti, mutilazioni, menomazioni perfino) sia possibile quanto meno evitare la morte. Contro la malvagità dei Virus, che è poi la malvagità della Natura intera, solo l’Industria Farmaceutica, la Sacra Scienza, la Magica Medicina, e dunque il Santo Potere Sanitario Mondiale, potrà difenderci. O, al massimo, un’Industria Farmaceutica Alternativa con la sua Scienza Olistica, la sua Medicina non-Convenzionale e il suo Santo contro-Potere Sanitario Democratico.
L’avvento della Scientocrazia, che eleva definitivamente la Scienza a governo del mondo, rende la distopia non più un riferimento immaginario collocabile nella letteratura dei tempi passati, ma qualcosa di attuale e che possiamo cominciare a sentire oggi sulla nostra pelle. La possibilità di arrivare fino ad amare il sistema di vessazioni e di restrizioni imposte dal governo, ai tempi del coronavirus non è più una prospettiva impensabile. Per essere resa possibile era necessario un intervento di terrorizzazione sanitaria a tutto campo. Solo passando per lo spauracchio della malattia, del virus mietipersone, dell’entità invisibile capace di fare le veci dello spirito maligno, è stato possibile mettere in riga tutti: conformisti e anticonformisti.
La distopia, dunque, non è più in un futuro più o meno prossimo, ma qui e ora.
Arruolati definitivamente nella Grande Guerra alla Natura, non pensiamo più al fatto che noi stessi siamo natura. Non c’è logica più delirante di quella che si regga sulla guerra di se stessi contro se stessi. Un’ideologia che spinga gli individui a odiare se stessi come nemici di sé, è un’ideologia suicida, che non può certo condurre a nulla di buono. La Cultura-civiltà è questa ideologia suicida, e il risultato folle di questa spinta all’odio verso tutto ciò che soddisfa in nostri bisogni naturali (dalla libertà alla riservatezza, dalla dignità alla socialità, dall’identità personale annullata dalla massa alla semplice possibilità di vivere) è stato perfettamente immaginato e descritto da Evgenij Zamjàtin, maestro di narrativa distopica (e precursore di Huxley e Orwell), quando completò il suo romanzo Noi (1919-1921, pubblicato solo nel 1924 in inglese).
Diversamente dagli altri testi dei suoi precursori rinascimentali e dei suoi successori novecenteschi, Zamjàtin descrisse il mondo distopico non guardandolo dalla prospettiva dell’osservatore esterno, ma da quella dell’invasato protagonista (D-503). Quello che emerge a chi ancora riesca a coglierne il senso straziante, è una realtà irreale che peggio non potrebbe essere concepita: un mondo non più di individui singoli e irripetibili, ma appunto di alfanumeri, felici di vivere nella totale trasparenza verso il potere, lusingati di poter cantare l’Inno dello Stato Unico, di leggere le Odi quotidiane al Benefattore, di festeggiare il Giorno dell’Unanimità, e dotati di un solo e irrinunciabile diritto: quello di essere puniti. Un mondo retto dalla Macchina dello Stato Unico, governato da un dittatore dalle fattezze di un grande Ragno (e chiamato il Benefattore), e seminato da Custodi intenti a mantenere l’ordine. Un mondo in cui D-503, perfettamente inserito nel suo contesto invivibile, pensa in questo modo: «“Benefattore, Macchina, Cubo, Campana Pneumatica, Custodi: tutto ciò è buono, tutto ciò è magnificente, bellissimo, nobile, elevato, puro in modo cristallino. Perché ciò protegge la nostra assenza di libertà, ossia la nostra felicità”»[3].
Nella società descritta da Zamjatin, liberata dalla pietà, dalla febbre della fantasia e marciante come un meccanismo automatizzato secondo le regole eterne della verità dei numeri, il controllo totale delle persone non è soltanto accettato, ma sentito come rassicurante: «“È così piacevole avvertire qualcuno il cui occhio vigile ti protegge amorevolmente da ogni più piccolo errore, da ogni più piccolo passo malcerto”»[4]. La delazione non è riprovata, ma percepita come un dovere sociale: «“C’è l’odore del mughetto e c’è quello schifoso del giusquiamo. Sia l’uno si l’altro sono odori. C’erano spie nello stato antico e ci sono spie nel nostro… sì, spie. Non temo di usare questa parola. Ma una cosa è chiara: allora la spia era un fiore di giusquiamo, oggi è un mughetto”»[5]. Persino la perdita di ogni identità personale è vissuta dagli alfanumeri come un privilegio: «“abbiamo i due piatti della bilancia: su uno c’è un grammo, sull’altro una tonnellata; su uno – “io”, sull’altro “Noi”, ossia lo Stato Unico. […] Ammettere che “io” possa accampare “diritti” nei confronti dello Stato e ammettere che un grammo possa equivalere a una tonnellata, è esattamente la stessa cosa. Di qui la seguente ripartizione: alla tonnellata – diritti; al grammo – doveri; e la via naturale che conduce dall’insignificanza alla grandezza sta nello scordare d’essere grammo e sentirsi milionesima parte della tonnellata”»[6].
Sotto i colpi ben assestati del Progresso, la domesticazione prosegue il suo corso verso il definitivo annullamento di ogni sensibilità, di ogni pulsione, di ogni istinto di conservazione. Anche noi, come D-503, sappiamo cantare gli inni nazionali, ripetere odi ai nostri benefattori, festeggiare le ricorrenze nazionali e religiose. È solo questione di tempo perché il potere mondiale si unisca anche ufficialmente in una Istituzione unica, così che si possa cominciare a rivolgere tutti assieme quelle preghiere e quei ringraziamenti senza dispersioni federalistiche. E comunque, già oggi pratichiamo la delazione all’odore di mughetto e siamo da tempo diventati alfanumeri: alfanumeri di carta d’identità, di codice fiscale, di matricola, di targa e persino alfanumeri di letto nelle corsie degli ospedali. Ma anche numeri soltanto: percentuali di votanti, ad esempio; ma anche exitt polls, dati share, valori di ricerche di mercato, quote di partecipazione, indici di consumo, rilievi d’indagine demoscopica e persino il milionesimo fortunato visitatore del sito che merita un riconoscimento. E, per non dimenticarcelo, anche noi parliamo già di “bene comune”, di “interesse generale” o di “sicurezza collettiva” ai quali attribuiamo tutti i diritti accettando di sentirci la milionesima e felice parte di quella “tonnellata”.
Pertanto, che sia chiaro: il processo di riduzione dell’umanità alla sua essenza insignificante, è in corso. La guerra che la civiltà ha dichiarato da diecimila anni alla Natura (e dunque anche alla nostra natura umana) non finirà con il coronavirus: a queste Prove d’imprigionamento e d’isolamento ne faranno seguito altre; altri abusi, altre prevaricazioni, altre forme di riduzione di tutti alla schiavitù. Aspettiamoci dunque di ritrovarci presto di nuovo tappati in casa a forza, dal giorno alla notte, con la balla di qualche altra influenza, senza più poter circolare/riunirci/manifestare il nostro pensiero.
Ma la cosa più agghiacciante di tutto questo, non sarà tanto l’imprigionamento in sé, quanto il fatto che, proprio perché il processo di riduzione all’insignificanza della milionesima parte è in corso, succederà che piano piano ci adatteremo anche a questa limitazione di libertà a schiocco di dita del Potere Sanitario, fino a considerarla normale e benvenuta. Proprio come i leoni chiusi in gabbia da anni negli zoo del Mondo Giusto arrivano a non essere più capaci di fuggire, nemmeno quando le sbarre delle gabbie siano lasciate aperte; proprio come i deportati ebrei nei campi di concentramento nazisti smisero di provare a scappare da quegli internamenti e quando arrivarono i russi e gli anglo-americani li trovarono semplicemente inebetiti e totalmente arresi e asserviti alle SS, anche la deportazione mondiale dell’umanità nei campi di sterminio della civilizzazione/domesticazione, farà il suo corso, e anche noi arriveremo per tappe progressive a inebetirci allo stesso modo.
Certo, oggi il salto che ci hanno fatto fare è grande. La pillola che ci hanno costretto a ingoiare è grossa e senza zucchero: passare da una concezione della persona (e della sua inviolabilità) consolidata in oltre settant’anni di carte costituzionali agli arresti domiciliari imposti brutalmente a tutti dal giorno alla notte, è stato duro. Qualcuno c’è rimasto male. Qualcuno non l’avrebbe mai detto. Qualcuno credeva di aver già visto il peggio avendo vissuto al tempo del Fascismo e della Seconda Guerra Mondiale. Qualcuno, infatti, si è risentito. Qualcuno, invece, c’è rimasto secco per l’incapacità di sopportare la gaglioffa. E qualcun altro ha perduto il proprio senno (solo in Italia, ci sono stati trecentomila pazienti in più con disturbi mentali legati alle condizioni di restrizione coatta imposte in tutto il mondo, hanno denunciato Massimo di Giannantonio ed Enrico Zanalda, presidenti della SIP – Società Italiana di Psichiatria)[7]. Ma se non fermeremo subito il trend delirante assunto dalla civilizzazione, sarà solo una questione di tempo quella di giungere sino a giustificare anche questo abuso come necessario.
Già oggi, si diceva, in tanti hanno cominciato a giustificare l’accaduto. Ai rassicuratori sociali che in questi mesi hanno esposto dai loro balconi gli striscioni arcobaleno con la scritta “Andrà tutto bene”, si uniscono i giustificatori alla deriva: “Cosa avrebbe dovuto fare il governo?”. Quando arriverà il prossimo giro di domiciliazione coatta per tutti, l’impatto devastante che esso avrà sulla nostra sensibilità sarà probabilmente già diverso. Qualcuno protesterà di meno. Qualcun altro, anticipando le giustificazioni di fine corsa, dirà che in fondo se l’aspettava. I più furbetti si saranno nel frattempo preparati: non certo a combattere l’abuso, quanto semmai a sopportarlo meglio. E quando la magnanimità del Potere Sanitario Mondiale, nostro Benefattore, nel suo angelico impegno di protezione della specie umana, ci rifilerà la sua terza, e poi la sua quarta e quinta bordata di reclusione, nemmeno ci accorgeremo più che è una bordata. I suoi Custodi, già ringraziati in questi mesi con flash mob di applausi dalle finestre, saranno acclamati come eroi: come difensori della nostra assenza di libertà, e cioè della nostra felicità. La Campana Pneumatica dentro la quale saremo deportati garantirà che un occhio vigile ci protegga amorevolmente da ogni nostro più piccolo errore. E mentre l’odore del mughetto della delazione diventerà ancor più profumato liberando ognuno di noi dalla pietà e dalla febbre della fantasia, la Grande Macchina, espressione più raffinata e complessa della Cultura (oltre che strumento di governo impeccabile delle difettose e mortali anime umane), si staglierà come Unica fonte di salvezza, con la sua Legge Universale, il suo Pensiero condiviso da tutti, la sua Scienza e la sua Tecnologia immortali. E ci consentirà di fare lo sforzo di giungere fino a comprendere che l’“io” non possa accampare “diritti” nei confronti dello Stato: ma solo doveri. Salvo naturalmente il diritto di essere puniti. Perché la via naturale che conduce dall’insignificanza alla grandezza sta appunto nel riuscire a scordare d’essere grammo e sentirsi milionesima parte della tonnellata.
Per opporci a questa follia non abbiamo più tempo da perdere. Del resto, se questo processo di ridefinizione antropologica della nostra specie dovrà realizzarsi attraverso sforzi progressivi di adattamento dell’umanità adulta, per le nuove generazioni tutto sarà molto più semplice. Per loro, che saranno cresciute con mascherine ospedaliere in faccia, guanti in lattice addosso, retina sui capelli, occhiali anti-schizzo sul naso, fazzoletto usa-e-getta in tasca, calzari sterili ai piedi, doccia all’Amuchina e mani nel culo, nemmeno si profilerà l’obbligo di uno sforzo. Non avendo avuto una possibilità di confrontare la loro vita irreggimentata con quella che c’era prima del coronavirus, nemmeno si accorgeranno di nulla. È così che procede da diecimila anni la domesticazione.
Ovviamente, questi giovani porteranno la perdita della Libertà come un vuoto nel cuore. Ma sarà un peso tanto insopportabile quanto incomprensibile: un peso sconosciuto che si manifesterà in forma di ulteriore sofferenza da sedare medicalmente, da trattare in forma terapeutica, da reprimere ulteriormente sul nascere, da eradicare, da estirpare. E siccome sarà sempre più difficile comprendere le cause di quella sofferenza, questi giovani si lasceranno docilmente sedare, trattare, reprimere, eradicare, estirpare.
D’altronde, la Santa Medicina Pubblica avrà già pronte le sue pillole, i suoi unguenti miracolosi, le sue magiche iniezioni e i suoi Trattamenti Sanitari Democratici per curare questi esseri difettosi e animaleschi che ancora percepiranno il male della loro estraniazione. Ma anche per curare tutti coloro che continueranno cocciutamente a sentire come intollerabile la segregazione, e reagiranno istintivamente col rifiuto di farsi mettere i piedi in testa, le manette ai polsi e il guinzaglio al collo. Non solo: i rimedi della Santa Medicina Pubblica serviranno, ancor più risolutamente, per curare tutti coloro che, ancor più ingrati e irriconoscenti, dovessero addirittura denunciare queste inevitabili restrizioni come abusive, magari ricordando ai loro simili, quale esempio assurdo di vita preferibile, quella terribile che fu un tempo, quando in quei trascorsi primitivi di qualche decennio fa l’esistenza era tutta una guerra brutale e quotidiana per la sopravvivenza. Immaginate un po’: un’esistenza senza mascherine protettive, senza guanti in lattice, senza retina per capelli, senza occhiali anti-schizzo , senza calzari sterili, senza doccia all’Amuchina e senza mani nel culo… Inconcepibile!
È per questo che occorre ribellarsi subito. Occorre farlo adesso che ancora abbiamo la percezione dell’ingiustizia che ci hanno fatto. Le dittature non si fermano da sole, e nemmeno le distopie hanno programmi di riconciliazione. La civiltà, d’altro canto, coi suoi diversivi, le sue sublimazioni indotte, le sue finte comodità, le sue forme di propaganda, le sue tecniche di manipolazione (comprese quelle di auto-manipolazione alternativa), ma anche con la sua forza d’intervento e il potere delle sue Istituzioni, ha la capacità di procedere senza sosta, cambiandoci giorno dopo giorno, di quel poco che basta per non farci indispettire, ma rendendoci in ogni istante sempre meno liberi, sempre meno sicuri, sempre meno umani.
Ci stanno trasformando in macchine. Non più esseri naturali dotati di cuore, ma ingranaggi meccanici di una Grande Macchina che da terribile congegno mangia-mondo viene sempre più presentata come il Benefattore: viva lo Stato Unico! Viva il Sistema Unico che ci protegge dalle malattie!
Se vogliano evitare di essere ridotti a macchine che eseguono gli ordini impartiti, e che esistono solo in quanto ingranaggi indispensabili al funzionamento della Grande Macchina, dobbiamo assumerne la precisa consapevolezza di questa riduzione. Non basta più teorizzare semplicemente la libertà: anche il fascista Salvini, anche la Fratella d’Italia Meloni, anche Renzi, Zingaretti, Conte e il Patto Trasversale per la Scienza parlano di libertà. Proprio come il generale Pappalardo con la sua “marcia su Roma” o Andrea Libero Gioia col suo partito di Resistenza-Resilienza Italiana 2020.
Questi ultimi furbetti, come tanti altri che oggi si atteggiano a messia liberatori dell’umanità reclusa (proponendo poi lo stesso modello di società già in essere, ma solo un po’ migliore), sono immediatamente saliti sul carro della formale opposizione a questo governo. Cavalcando l’ondata di esasperazione popolare seguita alla riapertura delle abitazioni, conducono le loro consunte battaglie di potere allo scopo di raccogliere masse di consumatori per riabilitare non certo la Libertà (che in una massa resta soffocata dall’insignificanza), ma la Costituzione. Eppure, oggi dovrebbe essere chiaro a tutti che i diritti non garantiscono nulla. Se in un batter d’occhio sono state prese tutte le carte costituzionali del mondo, le dichiarazioni universali dei diritti umani, le convenzioni internazionali ratificate dagli Stati e sono state usate dai governi in carica come carta igienica, è del tutto evidente che la Libertà non è nei diritti ma nel nostro cuore. Solo da lì non possono estirparla. Fin tanto che ce la toglieremo da soli dal cuore per collocarla nei diritti, essa resterà sospendibile a piacere da chi comanderà.
Non basta più teorizzare la Libertà, e nemmeno serve sciacquarsi semplicemente la bocca col suo suono indubbiamente melodioso. Serve cominciare a organizzarsi per praticarla per davvero la libertà: praticarla nel corpo, nella testa, nel cuore appunto.
È proprio il cuore che ci hanno strappato di dosso in tutti questi anni di intorpidimento democratico. Come umani non siamo animali logico-razionali: abbiamo la razionalità, ma abbiano soprattutto un cuore (che è spesso molto più importante della ragione). Contro l’autorità, ad esempio, contro l’abuso e l’oppressione, si risponde prima di tutto con il cuore. E invece, negli anni ci hanno proprio esaurito la capacità di sentire l’ingiustizia, l’oppressione, l’autorità. L’abbiamo spesso praticata noi stessi contro noi stessi, e ora non la riconosciamo nemmeno più come un problema.
Proprio perché è il cuore la principale vittima di questi tempi postmoderni, forse potremmo provare a riprenderci partendo da lì. La razionalità va bene, ma ad approcciarsi solo col cervello rischiamo di rafforzare la logica di questo mondo civilizzato, scientista e maschilizzato. Rischiamo cioè di diventare delle specie di burocrati: freddi, precisi, formalmente ineccepibili; ma senza vita. È la vita invece che ci stanno togliendo di dosso ora, non solo la libertà o la salute. La vita intera: la Gioia di Vivere!
Contro questa possibilità c’è solo una prospettiva possibile: resistere! Ma non in formato partito di massa che raccoglie folle solo per riabilitare il Sistema. Bensì per ritrovare l’individuo che ognuno di noi è (individuus, indiviso), e riabilitare così la nostra umanità, la nostra sensibilità, la nostra vitalità sopita. Sapere di non essere soli in questa prospettiva di resistenza è determinante.
Ovviamente, il percorso che ci può riportare a un recupero delle nostre originarie capacità di vivere sensibilmente e autonomamente nel nostro ambiente naturale non è un percorso che si possa fare dall’oggi al domani, ma è un percorso possibile. Ce lo dicono più di tre milioni di anni di vita primitiva in cui tutti gli umani che hanno condotto la loro esistenza prima dell’avvento della coltivazione, hanno goduto di una vita libera e in perfetta armonia con il Pianeta e con gli altri. E tutto senza bisogno di Leggi, di Stato, di Burocrazia, di Economia, di Energia, di Scienza, di Tecnologia e, pensate un po’, persino senza bisogno delle premurose attenzioni sanitarie di Burioni & Co e dei loro caritatevoli/misericordiosi progetti di vaccinazione universale.
È vero: forse non potremo ridiventare raccoglitori-cacciatori primitivi, ma se sapremo considerare quell’esempio come un modello sano di vita praticabile, e impareremo qualcosa dalla loro esperienza che ci è stata tramandata e raccontata, potremmo recuperare almeno in parte quella nostra perduta autodeterminazione selvaggia, e ridare un senso alla nostra vita chiudendo con quella prospettiva da vicolo cieco che abbiamo oggi davanti agli occhi. Ma occorre cominciare a intraprendere questo percorso: se non cominceremo sin da subito a cambiare direzione, prendendo quella opposta alla rotta stabilita dalla Cultura-civiltà (e che ci sta dirigendo verso il precipizio) non avremo scampo. Ogni tentativo di miglioramento del mondo così com’è legittimerà soltanto la direzione intrapresa facendoci finire tutti nel precipizio.
Occorre dunque mobilitarsi per riabilitarsi, non per riabilitare il Sistema. Occorre attivarsi per cominciare prima possibile a ricongiungerci con quella parte di noi che ancora non è stata domata né resa dipendente dalla Megamacchina e che aspetta solo di essere rimessa in vita. Occorre ritornare ad essere individui vividi e selvatici, consapevoli e determinati, responsabili e rispettosi, gioiosi e di nuovo pieni di desiderio.
Come ha ricordato Zerzan: «Specializzazione, addomesticamento, società di massa, tecno-cultura… questo è il Progresso: il suo compimento si presenta [oggi] in maniera sempre più inequivocabile. L’imperativo del controllo si rivela chiaramente […]. Questi tempi terribili possono anche svelare prospettive di pensiero e di azione, nuove e corroboranti. Quando tutto è in gioco, bisogna affrontare ogni cosa e cambiarla. In questo momento c’è la possibilità di farlo»[8].
Enrico Manicardi
NB) Sul tema Coronavirus si ascoltino anche le interviste rilasciate da Enrico Manicardi a diverse radio locali, e caricate su questo sito (sezione “Interviste radio e tv” – parte “Audio”).
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[1] Cfr. M. FISCHER, Realismo capitalista (2009), Nero, Roma 2018, pag. 50.
[2] Cfr. J. ZERZAN, Senza via di scampo? Riflessioni sulla fine del mondo (2002), Arcana, Roma 2007, pag. 22.
[3] Cfr. E. ZAMJATIN, Noi (1919-21), Mondadori, Milano 2018, pag. 60-61.
[4] Ibidem, pag. 65.
[5] Ibidem, pag. 36.
[6] Ibidem, pag. 111.
[7] Cfr. RAINEWS, Coronavirus, Oms: è allarme anche per la salute mentale , in: «rainews.it» del 7 maggio 2020. Riportato in: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/allarme-oms-aumento-disagi-mentali-a-causa-coronavirus-048b25f9-c8c2-4e01-9c4b-87b9ada8c58f.html?refresh_ce
[8] Cfr. J. ZERZAN, Il crepuscolo delle macchine (2008), Nautilus, Torino 2012, pag. 9