Modena, 24 dicembre 2020
MERRY CRISIS AND HAPPY NEW FEAR:
QUELLO CHE CI STANNO FACENDO SI CHIAMA DOMESTICAZIONE
Scalda il cuore ricevere mail di interessamento, nelle quali mi si chiede se il silenzio dei miei post (l’ultimo è di luglio 2020) sia dovuto a impegni o a mancanza di tempo o a scelte particolari. Significa che c’è ancora un’attenzione viva verso una critica che miri ad approfondire l’indagine su quel che ci sta accadendo, e non si fermi alla pura lamentela (disservizi sanitari, disorganizzazione istituzionale, poco controllo sociale della malattia) o alla contro-rappresentazione spettacolare di sciocchezze alternative dirette solo a sviare l’attenzione dalla causa del problema.
Come ho già risposto privatamente, il silenzio di questi mesi è dovuto principalmente al fatto che, in linea di massima, per quel che penso, le cose che c’erano da dire sono state dette. Con questa seconda puntata della Grande Messinscena del Coronavirus (quella andata in onda da ottobre 2020 fino ad ora, e che anticipa il terzo atto già calendarizzato per fine gennaio 2021) quel che si rischia è soltanto di ripetersi. Oppure – e ritengo sia ancora peggio – si rischia di trasformarci in famelici “cacciatori” di news e (dall’altra parte) in ossessivi commentatori di ogni angheria. La tecno-società dello spettacolo sommergendoci in tempo reale di flash, annunci, avvisi, proclami e informazioni, ci ha insegnato a rincorrere questo fiume di parole per se stesso, senza più alcuna attenzione per il bisogno di fermarsi a riflettere. Vediamo bene come anche i notiziari alternativi siano affetti da questo “limite”, e nessuno più mediti su niente, approfondisca niente, si curi di collegare, notare, analizzare o capire meglio.
Io non sono un giornalista e non intendo favorire quella cultura della notizia che ci spinge a correre dietro ad ogni dettaglio perdendo il senso della riflessione generale. Per comprendere quello che ci accade non serve una raffica di informazioni (che anzi, spesso riescono solo a stordire), ma tempo per entrare nel merito, per immergersi nella questione, per indagare le analogie e le estraneità.
In questo momento storico credo ci farebbe bene approfondire l’analisi su quel che sta accadendo, più che soffermarci sul “particolare”. Temo infatti che se non faremo lo sforzo di andare oltre lo “spettacolo della disgrazia”, ci ritroveremo tutti a diventare noi stessi gli attori (le comparse) di questo spettacolo.
D’altra parte, per quanto riguarda la questione generale, le cose sono chiarissime: abbiamo ancora bisogno di conferme per convincerci che siamo in dittatura? Dopo essere stati trattati per anni da “capitale umano”, “risorse”, “dati”, mezzi per la circolazione delle informazioni, e poi essere stati definiti “materiale biologico”, “gregge” da immunizzare, massa in assembramento, beni comuni, potenziali portatori di morte, abbiamo ancora bisogno di sorprenderci di fronte alla sequela di vessazioni e umiliazioni che ci vengono inflitte quali esseri considerati insignificanti?
Pertanto, col massimo rispetto per l’impegno dei giornalisti indipendenti che, dovendo necessariamente denunciare tutte le malefatte e le sfumature delle aberrazioni in corso, continuano giustamente a tenere alta la loro voce di aggiornamento della tragedia, io preferisco invitare le persone a una riflessione il più possibile analitica e viva su quel che ci sta accadendo. In questo senso, i miei post, i miei interventi radiofonici e i miei libri, così come quelli di tanti altri che si sono spesi allo stesso modo per offrire il loro contributo approfondito, sono a disposizione di chiunque voglia accedervi: non hanno la scadenza come i barattoli di fagioli.
So che abbiamo tutti fame di “novità”, ma a volte le risposte a quello che ci accade le possiamo trovare meglio guardando a ciò che abbiamo già, più che nel nuovo. E anche per questo, tornare a leggere, tornare ad ascoltare, a studiare, a meditare e rimeditare non ci farebbe male. Indirizzarci sulle cause del nostro immiserimento è più importante di tutto il resto.
Detto questo, mi premeva aggiungere una breve riflessione a quanto già considerato precedentemente: una riflessione che trae spunto proprio da queste festività di fine anno negate, e dalla crudeltà che tutti denunciano lamentandosi delle disposizioni normative che le hanno di fatto soppresse, e che si sommano a quelle altrettanto restrittive sulle festività pasquali ed estive.
Una premessa, servirà a confermare il carattere dispotico di queste ultime restrizioni alla libertà personale, ma credo che occorra cogliere meglio il loro contesto.
Tutti sappiamo che i numeri confermano che non esiste alcun contagio virale tra le persone. Le popolazioni ridotte ai lockdown, infatti, continuano a subire, anche in questa cosiddetta seconda ondata pandemica, lo stesso numero di positivi e di morti di quelle che vivono sotto l’amministrazione di governi che non hanno disposto misure così severe di restrizione. In una indagine del novembre scorso, per esempio, in Italia è stato appurato che dall’inizio della cosiddetta epidemia il Tasso di Letalità (e cioè la percentuale di deceduti sul totale dei positivi) è stato del 4,42%, mentre in Svezia (il cui governo non ha mai imposto il lockdown né in primavera né in autunno) è stata addirittura inferiore: 4,12%[1]. Anche il Rapporto di Mortalità (e cioè il numero dei deceduti rispetto all’intera popolazione nazionale) è identico tra i due Paesi: 0,06%[2]. Negli Stati Uniti è stato dello 0,07% e in Russia dello 0,02%[3].
Con uno studio pubblicato già a metà maggio 2020, l’esperto di statistica William M. Briggs ha confermato l’assenza di evidenze statistiche capaci di confermare l’efficacia delle restrizioni adottate: in Belgio, ad esempio, dove il lockdown è stato severissimo, si sono registrati 751 morti per milione di abitanti, mentre in altri paesi che non hanno imposto lockdown (o hanno fissato misure molto modeste) il numero dei decessi è stato decisamente inferiore: in Svezia sono stati 322 per milione di abitanti; in Islanda (nessun lockdown) 29 morti per milione di abitanti; in Giappone (misure modeste) sono stati tra 1 e 10 morti per milione di abitanti; in Botswana (niente blocchi) meno di 1 morto per milione di abitanti; in Etiopia (che non è stata chiusa) 0,04 morti per milione di abitanti; a Taiwan (nessun lockdown) 0,03 morti per milione di abitanti. Stessa situazione negli Stati Uniti d’America: in South Dakota, Stato che non ha avuto blocchi, è stata registrata una situazione 7 volte migliore di Chicago o di tutto l’Illinois che hanno invece attuato misure di restrizione alle libertà personali[4]. Vogliamo credere che questi riscontri statistici siano sconosciuti ai governi del mondo?
Allora perché negare anche le festività natalizie? C’è forse uno spirito sadico in chi governa che lo induce a provare piacere nel vedere le proprie vittime soffrire il più possibile? Non è così. O meglio: governare significa anche sviluppare delle forme di insensibilità umana sempre più severe, che poi si riversano nei comportamenti individuali: imparare a licenziare, a condannare, a picchiare, a reprimere o a uccidere non fa certo bene alla salute. Ma l’esigenza di infliggere restrizioni e sofferenze purtroppo non è solo dovuta alla degenerazione morale insita nell’attività di governare e dirigere. Se i governanti potessero ridurci in schiavitù senza sofferenze, lo farebbero subito (se non altro per tenersi pulita la coscienza). Purtroppo però, la domesticazione (e cioè l’attività intesa a piegare esseri viventi al proprio volere, togliendoli dalla stato di selvatichezza e addestrandoli a vivere in cattività) non è un processo che possa attuarsi solo con le buone maniere. Avete mai visto un cavallo domato, una tigre costretta a saltare nel cerchio di fuoco o un elefante fare la verticale al circo senza bastonate, scosse elettriche o altre forme di tortura?
Essendo la domesticazione un processo che si pone in contrapposizione al procedere naturale della vita (e della Libertà), essa impone necessariamente sofferenza: un po’ di bastone e un po’ di carota. Proprio com’è stato per noi questa primavera, e poi questa estate, e poi questo autunno, e ora con la negazione anche degli abbracci e dei festeggiamenti di fine anno.
Che la domesticazione implichi una iniziale e severa dose di “bastonate” ce lo ha spiegato molto bene Jack London quando, nelle pagine iniziali del suo famoso romanzo Il richiamo della foresta, ha descritto la domesticazione di Buck il cane protagonista del romanzo. Venduto da Manuel a un addestratore di cani (Druther, l’uomo dal maglione rosso), Buck conobbe ben presto questa legge della domesticazione. Attraverso di essa venne brutalmente picchiato, aggiogato psicologicamente e fisicamente, inserito in una muta di cani da slitta e costretto a imparare a piegarsi alla volontà del padrone umano. Per addomesticare qualcuno, infatti, occorre addestrarlo alla cattività, e cioè spegnerne in lui ogni velleità selvatica, fiaccarlo nella resistenza, domarlo, vincerlo, indurlo alla resa, costringendolo – una volta per tutte – a gettare le armi. Insomma, per addomesticare qualcuno occorre stroncarlo. Ed è proprio questo ciò che ci stanno facendo in questi mesi di coronavirus, negandoci ogni libertà personale, inducendoci a vedere gli altri come un potenziale pericolo di morte (anche se sono i nostri cari amici, i nostri genitori e i nostri figli), negandoci la possibilità umana di incontrarci e di stare insieme, di abbracciarci, di toccarci, di amarci, e – ancor più violentemente – negandoci persino di respirare ossigeno, di organizzare difese umane contro l’arbitrio, e impedendoci di passare con le persone care anche le festività natalizie, di capodanno e di epifania. Stanno spezzando la nostra naturale selvatichezza, annientando quella nostra rabbia che nasce dalla percezione dell’ingiustizia; stanno spezzando la nostra istintiva capacità di reagire con violenza alla violenza subita, il nostro naturale furore verso chiunque ci neghi la libertà di esistere. Jack London ha descritto alla perfezione questa fase della domesticazione, e mi premeva appunto riportare qualche significativo stralcio di questa riduzione di Buck alla schiavitù perché se ne possa cogliere meglio, tutti insieme, la comparazione con la nostra condizione attuale: basta solo sostituire a Buck la nostra persona, al bastone degli aguzzini la legge degli Stati, agli uomini del romanzo di London i governanti del mondo in cui viviamo, e la lettura diverrà molto istruttiva.
«Manuel passò due volte una solida corda attorno al collo di Buck sotto il collare. […] Buck aveva accettato la corda con tranquilla dignità; certo era una cosa insolita: ma aveva imparato ad aver fiducia negli uomini che conosceva e a far loro credito di una saggezza superiore alla propria. Quando però i capi della fune furono messi nelle mani dello straniero, ringhiò in modo minaccioso. Aveva semplicemente espresso il suo scontento, pensando nel proprio orgoglio che questo equivalesse ad un comando. Con sua sorpresa la fune gli si strinse attorno al collo togliendogli il respiro. Furioso balzò addosso all’uomo, che lo fermò a mezza strada, lo strinse ancor più forte alla gola e con uno strattone se lo caricò sulla schiena. La fune strinse senza misericordia mentre Buck annaspava furiosamente con la lingua penzoloni fuori della bocca e il grande petto anelante.
«Mai in vita sua era stato trattato così vilmente, e mai in vita sua si era arrabbiato tanto… Ma le forze lo abbandonarono, la vista gli si annebbiò, ed egli non capiva più nulla quando i due uomini lo caricarono sul bagagliaio di un treno.
«Quando riprese i sensi si accorse che la lingua gli faceva male e che era sballottato in qualche cosa in movimento»[5]. Dopo essere riuscito a sferrare un morso alla mano di uno dei sconosciuti, Buck perse di nuovo i sensi, viaggiando tutta la notte verso il luogo della doma. «Sbigottito, soffrendo tremendamente alla gola e alla lingua, mezzo morto – ci racconta ancora London –, Buck cercò di resistere ai suoi tormentatori. Ma fu domato e abbattuto più volte finché i due riuscirono a limare il suo grosso collare di ottone; poi gli tolsero anche la fune e lo spinsero in una gabbia di legno. Rimase per il resto di quella spaventosa notte covando la sua rabbia e il suo orgoglio ferito.
«Non riusciva a capire che cosa significasse tutto questo. Che cosa volevano fare di lui quegli strani uomini? Perché lo avevano chiuso in quella stretta gabbia? Non riusciva a capacitarsi, ma si sentiva oppresso dal vago senso di una sciagura imminente. […] Per due giorni e due notti il vagone fu trascinato da fischianti locomotive, e per due giorni e due notti Buck non mangiò né bevve.
«Nella sua angoscia si era messo a latrare al personale del treno, che aveva risposto facendogli dispetti. Quando si gettò contro le sbarre fremendo e con la bava alla bocca, quelli si misero a ridere e a canzonarlo. […] Tutto ciò era veramente ignobile, egli lo capiva; ma appunto per questo la sua dignità ne era maggiormente offesa e la sua rabbia cresceva sempre di più. […] Sensibilissimo com’era, il cattivo trattamento avuto gli aveva infatti dato un accesso di febbre alimentata dall’infiammazione della gola arsa e tumefatta. Era contento di una cosa: gli avevano tolto la corda. Quella corda aveva dato loro uno sleale vantaggio, ma ora che non c’era più, avrebbe potuto mostrare quel che sapeva fare. Non gli avrebbero certo messo un’altra corda al collo: su questo aveva già deciso.
«Non mangiò né bevve per due giorni e per due notti, e durante questo periodo di pena accumulò una riserva di rabbia che prometteva male per il primo che gli fosse capitato davanti. Aveva gli occhi iniettati di sangue e si era trasformato in un demonio arrabbiato. […] Gli impiegati del treno respirarono di sollievo quando lo scaricarono a Seattle.
«Quattro uomini portarono cautamente la gabbia dal vagone in un piccolo cortile dalle alte mura. Venne un omaccione con una maglia rossa che gli saliva fino al collo e firmò il registro del corriere. Buck indovinò che quest’uomo era un altro aguzzino e gli abbaiò furiosamente gettandosi contro le sbarre. L’uomo ebbe un riso crudele e afferrò un’ascia ed un bastone.
«- Non vorrete mica farlo uscire adesso! – chiese il corriere.
«- Sicuro, – rispose l’altro dando un colpo d’accetta alla gabbia per provarla.
«Immediatamente i quattro uomini che l’avevano portata balzarono via e, mettendosi in salvo sul ciglio del muro, si prepararono a osservare lo spettacolo.
«Buck si avventò sulle schegge di legno e vi affondò i denti pieno di furia; dovunque l’ascia si abbatteva dall’esterno [della gabbia] egli si precipitava dall’interno ringhiando e latrando freneticamente ansioso di gettarsi sull’uomo dalla maglia rossa che continuava tranquillo il suo lavoro.
«- E adesso avanti, diavolo dagli occhi rossi, – disse l’uomo quando ebbe fatto nella gabbia un’apertura sufficiente perché Buck potesse passare. Nello stesso tempo lasciò cadere l’ascia e afferrò il bastone con la destra.
«Buck era veramente un diavolo dagli occhi rossi, tutto raccolto per scattare, col pelo irto, la bocca grondante di bava e un lampo folle negli occhi sanguigni. Si scagliò dritto contro l’uomo con le sue centoquaranta libbre di furia aumentate da tutta la passione accumulata in quei due giorni e in quelle due notti. A mezz’aria, proprio quando le sue mascelle stavano per chiudersi addentando, ricevette un colpo che lo arrestò facendogli battere i denti dolorosamente. Fece una capriola battendo a terra col dorso e col fianco. Non era mai stato colpito da un bastone in vita sua, e non riusciva a capacitarsi. Con un ringhio che era in parte un latrato ma assai più uno strido, balzò in piedi e si slanciò. Ancora fu colpito e gettato a terra. Questa volta comprese cos’era un bastone, ma la sua furia non gli permetteva di essere prudente. Caricò ancora una dozzina di volte, e ogni volta il bastone arrestò il suo attacco e lo stese a terra.
«Dopo un colpo più crudele, strisciò ai piedi dell’uomo troppo stordito per slanciarsi. Fece qualche passo barcollando mentre il sangue gli usciva dal naso, dalla bocca e dagli orecchi; il suo bel pelo era sporco di bava sanguinosa. Allora l’uomo fece un passo avanti e gli diede risolutamente un terribile colpo sul naso. Tutte le sofferenze che aveva avuto fino allora erano nulla in confronto del profondo spasimo che provò. Con un ruggito feroce, che sembrava quello di un leone, si slanciò ancora contro l’uomo, ma questi, passando il bastone dalla destra nella sinistra, lo afferrò con tranquilla sicurezza alla mascella inferiore e gliela torse. Buck descrisse nell’aria un giro completo e la metà di un altro. Picchiando poi a terra con la testa e col petto, s’avventò per l’ultima volta. L’uomo gli diede il colpo di grazia, quello che aveva accortamente serbato per ultimo, e Buck si abbatté come un cencio, privo di sensi.
«- Per domare i cani non ha l’eguale, ecco quel che dico, – gridò entusiasta uno degli uomini sul muro.
«- Druther doma un cane al giorno e il sabato due – rispose il corriere arrampicandosi sul suo carro e avviando i cavalli.
«Buck riprese i sensi, ma non le forze. Rimase sdraiato là dov’era caduto e gettò uno sguardo all’uomo dalla maglia rossa.
«- “Risponde al nome di Buck”, – disse tra sé l’uomo leggendo la lettera del taverniere che gli annunciava la spedizione della gabbia e del suo contenuto.
«- Bene, Buck, ragazzo mio – continuò bonariamente – abbiamo avuto una piccola discussione, e la miglior cosa che si possa fare adesso è di non pensarci più. Tu hai capito qual è il tuo posto e io so qual è il mio. Se sarai un buon cane, tutto andrà benone, ma se sarai un cane cattivo, te ne darò quante potrai portarne, capito?
«Così parlando gli carezzava senza paura la testa che aveva colpito così crudelmente, e sebbene il pelo di Buck si ergesse istintivamente al tocco di quella mano, egli sopportò la carezza senza protestare. Quando l’uomo gli portò dell’acqua, bevve avidamente e poi mangiò una generosa porzione di carne cruda, a pezzo a pezzo, prendendola dalla mano stessa dell’uomo.
«Era stato vinto, lo sapeva […]. Capì una volta per tutte che contro un uomo armato di un bastone non c’era niente da fare, imparò la lezione e non la dimenticò più per tutta la vita»[6].
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Questa è l’attività necessaria ad addomesticare un animale selvatico, e noi tutti al momento della nascita siamo ancora animali selvatici. Ma poi veniamo educati…
In fondo, se volessimo commentare l’aberrante riduzione alla resa di Buck, si potrebbe sostenere che l’unica differenza tra noi e quel povero cane è che questi capì subito, dalla prima stretta sgarbata, che quelli che gli si paravano davanti erano degli aguzzini, mentre noi – che siamo appunto stati educati – continuiamo ancora oggi, imperterriti, dopo vessazioni e vessazioni, ad avere fiducia nei governi, nella Legge, nelle Istituzioni della civiltà: continuiamo ad esempio a credere alla neutralità dei Tribunali, come se i tribunali non fossero parte dalla Megamacchina civilizzatrice che ci sta addomesticando. Continuiamo a credere nella Legge (giusta), nella Scienza (vera), nella Tecnologia (verde), nella Economia (circolare), nella Cultura (liberatrice), nella Politica (dal basso), nel Potere (buono). Anche il ragionier Fantozzi, servile e accondiscendente verso tutti, al ventottesimo “coglionazzo” si ribellò all’umiliazione infertagli dal Megadirettore Catellani durante la partita a stecca. Noi, invece, non ci ribelliamo più. Quanti altri “coglionazzo” dobbiamo subire per smettere di credere nelle asce e nei bastoni con i quali ci stanno addestrando alla cattività?
È la civiltà/domesticazione – si diceva nell’ultimo post – il problema che abbiamo. In particolare quella che alberga dentro di noi e che – proprio come pervase Buck all’inizio della sua disavventura – ci ha insegnato ad aver fiducia nella Legge, nel Sistema, nelle Istituzioni della civiltà, inducendoci a dare a queste credito di una saggezza superiore alla nostra e a credere quindi che i governi facciano i nostri interessi, che le industrie farmaceutiche si preoccupino della nostra salute, che la scienza e la tecnologia ci liberino la vita e che tutto il mondo artificiale in cui viviamo (quello culturale che si è progressivamente sovrapposto alla Natura e che la sta rimpiazzando) sia il Paese di Bengodi, non una prigione insopportabile nella quale siamo costretti, chiamati a rinunciare alla Libertà e alla Felicità in cambio di Lavoro, Democrazia e Benessere.
È questo che, a mio avviso, dobbiamo comprendere: la civiltà non è l’isola di Bengodi, ma una prigione insopportabile che ci separa da Madre Terra, e cioè ci separa dalla vita, dagli altri, da noi stessi. Invece, come se nulla fosse, non cogliamo il fatto che il Benessere (rectius: il bene-avere) non valga un centesimo della nostra Libertà e della nostra Felicità. Non cogliamo fino in fondo il fatto che il Lavoro “renda liberi” (proprio come pensava qualcuno) e che la Democrazia sia soltanto un’illusione (la carota?) che ci viene propinata per adeguarci alla civiltà e alla sua legge: una carota che – come abbiamo visto di questi tempi – può essere in qualsiasi momento tirata via e trasformata di nuovo in bastone.
Come Buck, siamo frastornati: non comprendiamo cosa stia succedendo in questo fatidico 2020. Come lui non riusciamo a capire cosa significhi tutto questo, e cosa vogliano fare di noi queste strane Istituzioni e i loro comandanti. Perché ci hanno chiuso in questa gabbia dalle sbarre trasparenti e che quest’anno si sono mostrate così visibili? Come Buck non riusciamo a capacitarci di quello che ci sta succedendo. In fondo, proprio come lui, vivevamo da sempre al collare del nostro padrone (per Buck il giudice Miller quando era semplicemente un cane da compagnia), e sopportavamo relativamente bene quella pena. Certo, l’aumento dei suicidi, la depressione dilagante, l’uso di sostanze stupefacenti, l’alcolismo, la malattia mentale e il crimine ci hanno sempre dimostrato che in gabbia non si sta bene. Ma mai un uomo con il maglione rosso era venuto a trattare anche noi, direttamente, con questa disumanità. Perché infliggerci tutta questa sofferenza? Non riusciamo ancora a farcene una ragione, ma, proprio come Buck, ci sentiamo oppressi dal vago senso di una sciagura imminente…
È proprio questo vago senso di tragedia (che ancora riusciamo a percepire) che potrebbe salvarci. Perché non abbiamo scelta: o comprenderemo le semplici regole della domesticazione (la legge del bastone e della carota), o finiremo con l’esserne vinti. E ne saremo vinti anche se ci sembrerà impossibile che ciò accada; anche se continueremo a dirci che non ci arrenderemo mai; anche se – esattamente come Buck – continueremo a pensare che la corda al collo che portiamo da millenni abbia dato alla civiltà solo uno sleale vantaggio, ma che adesso faremo vedere a tutti di che pasta siamo fatti. Se non comprenderemo il senso della legge del bastone e della carota, puntello della domesticazione, ne saremo piegati.
Che in questo anno 2020 la civiltà si sia trovata nelle condizioni giuste per sferrare il suo decisivo attacco domesticatorio, e ci abbia brutalmente riempito di bastonate svelandoci così palesemente le sue intenzioni di soggezione, dovrebbe metterci in guardia contro la civiltà, non indurci a piegarci ulteriormente ai miti e ai riti di una ipotetica Civiltà Alternativa. Non esiste una Legge buona, una Scienza buona, una Tecnologia buona, un’Economia buona, una Cultura buona, una Politica buona, un Potere buono. Fabrizio De Andrè che ce lo ha ricordato senza giri di parole, in una sua vecchia canzone: “bisogna farne di strada […] per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”. Allo stesso modo in cui non può esistere una domesticazione buona, non possono mai essere buoni gli strumenti di cui essa si serve per indurci alla resa.
Anche perché, e qui viene il bello (per modo di dire), la partita della domesticazione non finisce con la resa incondizionata della vittima. L’aguzzino, cioè, non si accontenta mai di ottenere solo che ora ci si faccia accarezzare la testa, che si mangi dalle sue mani e che si accettino i suoi bonari inviti a non pensare più agli abusi subiti, passandoci sopra in nome di quella rinnovata finta amicizia che – come diceva Druther a Buck – suona con le regole della sottomissione: “Tu hai capito qual è il tuo posto e io so qual è il mio. Se sarai un buon cane, tutto andrà benone, ma se sarai un cane cattivo, te ne darò quante potrai portarne, capito?”.
Con la resa incondizionata della vittima l’aguzzino non ha esaurito il suo compito. O meglio: lo ha esaurito, ma non è finita lì. Ora è la vittima che deve dimostrare di saper fare di più. Capire qual è il posto della vittima e fare il “buon cane”, significa appunto fare di più della semplice accettazione della sconfitta, della semplice consegna delle armi della selvatichezza. Significa cominciare a cooperare con il torturatore anche contro se stessi: significa mettersi dalla sua parte, perdere ogni propria dignità, ogni propria libertà, ogni propria pulsione naturale, per dirigere tutta la conseguente frustrazione verso la collaborazione con l’aguzzino, così da sublimare l’angoscia della perdita di se stesso con la forza dello stare dalla parte dei vincitori. Significa dunque diventare servirli in tutti i modi possibili, magari anche anticipando le esigenze dei vincitori e stroncando chiunque si opponga al processo di domesticazione che ora è la vittima a perpetuare negli altri. Prendersela dunque con coloro che non sono ancora domi, che resistono, che mostrano riluttanza, che stanno apertamente dalla parte della Libertà contro la logica della soggezione: questo è il primo dovere dell’individuo addomesticato che dimostri quanto sia diventato un “buon cane”.
E più l’addomesticato si inabisserà nel delirio autodistruttivo imposto dalla domesticazione, più dimostrerà di essere un “buon cane” e meriterà posizioni di privilegio dentro alla galera. Fino a poter ambire a diventarne addirittura il direttore, il capo della prigione. Proprio come accadde a Buck, trasformato in cane da slitta e divenuto poi il capo della muta da tiro. Jack London ci ha descritto ancora una volta magistralmente anche i dettagli psicologici di questo secondo tempo della domesticazione, rilevandoli appunto nell’atteggiamento di Buck e della muta dei cani da slitta di cui era divenuto parte.
Dapprima Buck si stupì per l’ardore mostrato dagli altri cani addomesticati della muta. Buck «Fu sorpreso dello zelo che animava tutto il tiro e che si era comunicato anche a lui, ma ancor più lo sorprese il cambiamento avvenuto in Dave e in Sol-leks: erano diversi, completamente trasformati dalla bardatura. Avevano perso tutta la loro passività e la loro indifferenza, erano attivi e solerti, ansiosi che il lavoro procedesse bene, e profondamente irritati se qualche cosa lo ritardava per qualche ostacolo o qualche confusione. Sembrava che la suprema espressione del loro essere fosse il fare forza sulle tirelle [le funi da tiro indossate N.d.R.], che vivessero solo per questo, e che in questo lavoro consistesse l’unico loro piacere»[7].
Ben presto, comunque, anche Buck si accorse di un certo mutamento in se stesso: «Il suo sviluppo, o la sua regressione, fu rapido: i suoi muscoli divennero duri come acciaio, si abituò a tutte le sofferenze quotidiane e riuscì a formarsi un’economia interna come una esterna. Poteva mangiare qualunque cosa anche se ripugnante e indigeribile; e quando l’aveva mangiata, i succhi del suo stomaco ne traevano ogni minima particella di nutrimento; e il sangue la portava nei più reconditi angoli del suo corpo trasformandola in forti e solidi tessuti»[8].
Divenuto insensibile alle sofferenze come una macchina, e forte lui stesso come una locomotiva, cominciò anche a sentirsi interessato a compiacere i bisogni degli umani, e presto investì le proprie energie vitali nel cercare di conquistare la supremazia nella muta da tiro. «Una sera [Perrault e François, gli umani che guidavano la slitta] avevano piantato un piccolo e triste campo sulle rive del lago Le Barge; nevicava e tirava un vento che tagliava come una lama di coltello, e l’oscurità li aveva costretti a cercare a tentoni un posto per accamparsi. […] Buck si scavò il giaciglio al piede della roccia. Se ne stava lì così bene riparato e al caldo, che lo lasciò a malincuore quando François distribuì il pesce dopo averlo sgelato sul fuoco. Ma quando Buck ebbe finito la sua razione e tornò alla buca, la trovò occupata. Un ringhio minaccioso lo avvertì che l’usurpatore era Spitz [il cane a capo del tiro, N.d.R.]. Fino ad ora Buck aveva evitato ogni litigio col suo nemico, ma questo era troppo. La belva che era in lui ruggì. Balzò sopra Spitz con una furia che li sorprese entrambi […]. Da quel momento fra i due cani vi fu guerra. Spitz guida e capo riconosciuto del tiro, sentiva minacciata la sua supremazia da quello strano cane del Sud. E Buck era strano davvero, perché dei tanti cani del Sud che Spitz aveva conosciuto, nessuno si era mostrato capace di sopportare le fatiche del campo e della pista. […] Era inevitabile che avvenisse l’urto per il predominio. Buck ne sentiva l’esigenza perché lo richiedeva la sua natura stessa, perché era stato preso dall’orgoglio ineffabile e senza nome della pista: quell’orgoglio che tiene i cani legati al loro lavoro fino all’ultimo respiro, che li induce a morire felici sotto la bardatura, e spezza loro il cuore se ne sono distolti. Era questo l’orgoglio di Dave come cane di ruota, l’orgoglio di Sol-leks quando tirava con tutte le sue forze; l’orgoglio che li afferrava quando si toglievano le tende trasformandoli da bruti sordi e ostinati in creature ardenti, franche, ambiziose […]. Era l’orgoglio che animava Spitz e lo costringeva a punire i cani della slitta che sbagliavano o cercavano di non lavorare lungo la pista, o al mattino si nascondevano quando dovevano essere attaccati [alle tirelle]. Ugualmente era questo orgoglio che gli faceva temere in Buck un possibile cane guida. Ed era appunto questo l’orgoglio di Buck. Egli minacciava apertamente il dominio dell’altro. Cominciò ad intromettersi fra lui e i cani che doveva punire, e lo fece deliberatamente»[9], fino ad ottenere, a suon di scontri fisici, il riconosciuto ruolo di capo della muta da tiro.
Tutto questo accade perché quelle energie vitali che Freud chiamava “Eros” (in contrapposizione a quelle mortifere chiamate “Thanatos”), non sono soppresse dal trovarsi vinti, arresi, stroncati dalla forza della domesticazione. Quelle energie vitali che animano ogni essere vivente in quanto tale, non possono essere soppresse dalla cattività, e allora s’incanalano altrimenti: vanno cioè ad alimentare quello che London ha appunto definito “l’orgoglio ineffabile e senza nome della pista” e che per gli umani inciviliti significa appunto lavoro, carriera, potere, prestigio, soldi, riconoscimento sociale. In altre parole, le energie vitali cessano di essere al servizio della nostra libertà, per dirigersi al servizio del potere che ci sta addomesticando.
La “pista” umana è sostanzialmente la vita incivilita, costellata di tutte le sue brutture, le sue ipocrisie, i suoi ladrocini, le sue astuzie, i suoi tranelli, le sue guerre, i suoi cinismi, la sua routine e i relativi diversivi che svuotano ma – allo stesso tempo – distraggono: «Buck non amava quel lavoro, ma lo eseguiva coscienziosamente, riponendo in esso il proprio orgoglio come facevano Dave e Sol- leks, e badando che i suoi compagni, animati o no da quello stesso orgoglio, facessero bene la loro parte. Era una vita monotona che si svolgeva con regolarità meccanica. Ogni giorno era eguale al precedente.
«Ogni mattina, a una certa ora, arrivavano i cucinieri, si accendevano i fuochi e si faceva colazione. Poi, mentre alcuni levavano il campo, altri attaccavano i cani; ed erano già in viaggio circa un’ora prima che si diradassero le tenebre dinanzi alle primi luci del giorno. Al calare della notte si piantava il campo. Alcuni rizzavano le tende, altri tagliavano legna da ardere e rami di pino per farne giacigli, altri ancora portavano acqua o ghiaccio per i cucinieri.
«Anche i cani erano nutriti, ed era questo, per loro, l’unico avvenimento della giornata, sebbene fosse piacevole, dopo aver mangiato il pesce, andare attorno bighellonando per un’oretta insieme agli altri cani, un centinaio o più»[10].
Invece di difendere la propria libertà, l’animale addomesticato difende le proprie catene; compreso il Sistema e le Istituzioni della civiltà che sono ciò che gli fornisce l’alienazione della routine quotidiana. In cambio di questa tristezza, reclama solo distrazioni, svaghi, passatempi che gli consentano di far scorrere la sua mesta esistenza addomesticata senza alcuna consapevolezza di quella sua mestizia. Si chiamino spettacolo, sport, intrattenimento, o più in generale arte, cultura, o carriera, potere, fama e celebrità, questi diversivi culturali svolgono tutti la stessa identica funzione: distrarre, appunto, dalla sofferenza che induce una vita strappata alla sua vitalità e resa l’ombra di se stessa; nascondere la consapevolezza di un’esistenza immiserita, rinchiusa nella cattività e costretta a servire tutto quanto di inutile esista al mondo (dalla produzione alla stratificazione sociale).
Ma è proprio questo rifiuto di guardare alla sofferenza di una vita repressa e messa al soldo della civilizzazione che rende forte la civilizzazione stessa. Il soggetto addomesticato diventa cioè progressivamente zelante nello svolgere nel miglior modo possibile il lavoro impostogli, rispondendo agli ordini come una macchina e cominciando a disprezzare chiunque reagisca come reagiva lui quando ancora non era stato addomesticato. Buck ce lo spiega ancora una volta: «Dall’inizio dell’inverno avevano percorso milleottocento miglia trascinando slitte per tutta questa distanza; e milleottocento miglia pesano anche sul cane più resistente. Buck resisteva, incitando i compagni al lavoro e mantenendo la disciplina […]»[11].
E gli altri cani della muta a obbedire fino alla morte, come Dave che, straziato da anni di fatica e ormai solito a guaire di dolore durante ogni viaggio, non mancò mai di farsi trovare pronto al tiro, anche l’ultimo giorno della sua vita. «Dave […] stava proprio davanti alla slitta al suo posto. Supplicava con gli occhi che lo lasciassero lì. Il conducente era perplesso. I suoi compagni raccontavano come un cane possa morire di crepacuore se tolto da un lavoro che tuttavia lo uccide, e ricordavano casi a loro noti, in cui i cani, troppo vecchi per lavorare o feriti, erano morti per essere stati tolti dalle tirelle. Consideravano dunque un atto di pietà, poiché Dave doveva morire ad ogni modo, lasciarlo morire tra le tirelle, a cuor leggero e contento. Così fu nuovamente attaccato ed egli tirò baldamente come un tempo, sebbene più di una volta urlasse involontariamente per il dolore della sua ferita interna.
«Parecchie volte cadde e fu trascinato dalle tirelle e una volta la slitta gli andò addosso, cosi che in seguito zoppicò da una delle gambe posteriori. Tuttavia tenne duro finché si giunse al campo […]»[12]. Avete presente il ragionier Fantozzi, nell’episodio della saga in cui va in pensione? Avete presente quanto si disperi della vita divenuta insignificante senza le umiliazioni e le angherie della fabbrica? Avete presente quanto consideri insopportabile il pensionamento, al punto di arrivare a chiedere di poter pagare pur di ritornare in servizio? È tragica la comicità di Paolo Villaggio, proprio nella misura in cui ci comunica che non c’è proprio nulla da ridere della domesticazione, perché il ragionier Fantozzi non è solo l’emblema dell’ultimo im-piegato di fabbrica, ma l’espressione dell’individuo addomesticato nel contesto sociale degli atri individui addomesticati (i colleghi im-piegati come lui). Non c’è nulla da ridere, perché Fantozzi siamo noi.
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Ora, possiamo anche farci beffe di tutte queste considerazioni e ritenerle delle pure baggianate. Possiamo anche crederci superiori alla forza domesticatrice della civiltà ed essere certi che non ne diventeremo mai una vittima designata. Possiamo anche non renderci conto di essere già “cani da compagnia” al guinzaglio della civiltà e indotti, in questo 2020, a diventare “cani da tiro” e, conseguentemente, “buoni cani”. Resta il fatto che è a questo processo di domesticazione che siamo tutti soggetti. La civiltà è domesticazione.
Dopo le inaccettabili restrizioni liberticide imposte con la balla del contagio virale (ivi comprese le chiusure natalizie e i lockdown prossimi e venturi), seguirà una specie di apertura del Regime, che si mostrerà amico, vicino, interessato alla nostra sorte: sarà solo la “carota” che seguirà allo stroncamento di ogni nostra velleità umana. Sarà solo quell’accarezzarci la testa dopo le botte, e quell’indurci a non rispondere più alla civilizzazione, mangiando con avidità dalle sue mani e accettando le manfrine paternalistiche che ci verranno propinate dai mass media e che ci parleranno di una nuova amicizia: quella di chi avrà capito il proprio ruolo e si comporterà appunto da “buon cane”.
La condizione di emergenza diventerà stabile, permanente, perenne. Ciclicamente, cioè, dovremo subire la pressione di qualcosa che ci costringerà a stare tutti terrorizzati e rinchiusi in casa: oggi (e per chissà quanto) è il coronavirus, domani sarà la terribile Mosca Pirulina, poi le ondate di Vento dell’Est e chissà cosa ancora.
Quello che ci stanno facendo si chiama domesticazione, che è la fase successiva al dominio: finché costringo qualcuno a fare qualcosa e a stare in prigione, lo domino; quando l’avrò convinto a starci volontariamente in gabbia, e a fargli fare tutto ciò che voglio di propria spontanea iniziativa, l’avrò addomesticato. A quel punto sarà lui stesso che, “preso dall’orgoglio ineffabile e senza nome della pista”, comincerà fare spontaneamente tutto quanto necessario, ad anticipare persino il volere del padrone diventando più realista del re, e a reclamare per primo il valore della gabbia, chiedendo lui stesso di esservi rinchiuso e applaudendo a chiunque gli sopprimerà Libertà e Felicità, promettendogli sicurezza e protezione. Viene in mente qualcosa di questa nostra tristissima attualità?
Tutto quello che stiamo subendo, compresa la crudeltà d’impedire feste e manifestazioni d’affetto umane, non è casuale, e nemmeno è una sequela di vessazioni episodiche separate da un loro preciso contesto. Se non andremo alla causa di queste vessazioni, e cioè alla domesticazione, e non faremo quanto necessario per liberarci dalla civiltà (cominciando da quella che vive già dentro di noi), faremo tutti la fine di Buck, di Spitz, di Dave; o di Zanna Bianca, il protagonista dell’omonimo romanzo di Jack London, il quale, da lupo stroncato anch’egli nelle sue velleità di essere vivente, giunse fino a cessare di percepirsi come il padrone di se stesso: «Egli apparteneva agli umani, come tutti i cani appartengono a essi – scrive appunto London –. Le sue azioni erano loro, come il suo corpo era loro, per essere maltrattato, calpestato, e per tollerare tutto. Tale era la lezione che egli aveva rapidamente appresa. Fu una lezione dura, poiché contrariava tutto ciò che era forte e dominante nella sua natura; e mentre odiava questa schiavitù, senza saperlo apprendeva ad amarla. Era un collocare il proprio destino nelle mani di un altro, un sollevarsi dalle responsabilità dell’esistenza»[13].
Prima che la civilizzazione ci renda tutti degli automi indotti a provare l’autodistruttivo bisogno di mettere il nostro destino nelle mani di governi e Apparati tecnico-scientifici, e di sentirci con ciò sollevati dalle responsabilità dell’esistenza fino ad amare la nostra schiavitù, abbiamo la possibilità di opporci a questa sorte. Ma occorre comprendere che il problema che abbiamo è la civiltà/domesticazione: non Giuseppe Conte, non Bill Gates, non George Soros o la Famiglia Rockefeller (non cioè l’uomo dal maglione rosso di turno). Prendersela con questi soggetti, così da cambiare quelli e modificare l’apparenza di ciò che ci sta annientando perpetuandone la sostanza, non ci aiuterà. Pensare che a mettere quegli uomini alle sbarre ci si liberi del problema, vuol dire non aver ancora compreso quale sia il problema: vuole dire sottovalutare la forza sovrastante della domesticazione, pensando illusoriamente di poterla contrastare da pari.
Allo stesso modo, credere che a cambiare la Legge, a rinnovare il Sistema, e a costruire una Civiltà Alternativa, ci si possa mettere in salvo, significa non avere ancora ben chiaro quanto sia appunto la civiltà il problema che abbiamo.
Del resto, anche continuare a considerare le vessazioni di questo Mondo Unico come slegate le une dalle altre e separate dal loro contesto originario, non ci verrà in aiuto.
Oggi ci battiamo per un’infinità di buone cause: ci battiamo contro le restrizioni sanitarie, contro la tecnologia e le biotecnologie, contro lo sfruttamento animale, il patriarcato, la guerra, lo Stato, eccetera. Tutto perfetto! Ma quel che serve comprendere è che tutte queste forme di resistenza particolare trovano la loro ragion d’essere in un problema originario comune: la civiltà, e cioè la mentalità del dominio che abbiamo assunto cominciando a coltivare i nostri cervelli (cultura) e poi la terra (agri-coltura), e che ci ha infilato nel circolo vizioso e pernicioso della domesticazione (delle terre, degli animali, delle donne, degli uomini, dei bambini, dei minerali, delle energie della Terra, eccetera).
Questo, del resto, è il significato e il valore unificante della critica radicale alla civilizzazione. Stato, Istituzioni, Burocrazia, Guerra, Sfruttamento, Patriarcato, Scienza, Tecnologia, Economia, Cultura, Politica, Potere hanno tutte un’origine comune: la civiltà/domesticazione.
Porsi in una dimensione coscientemente critica verso la civilizzazione, dunque, è fondamentale. Perché significa riuscire a dare a ognuna delle nostre lotte specifiche il senso comune di una opposizione radicale a questo mondo intollerabile.
Se non comprenderemo che tutte le battaglie particolari che ci coinvolgono sono in fondo battaglie contro la domesticazione, e continueremo a pensarle come fossero tutte slegate le une dalle altre e a se stanti rispetto al contesto che le ha rese necessarie, finiremo anche noi addomesticati del tutto, e ci ritroveremo prima o poi disponibili a restare volontariamente su quel tecno-treno che ci sta conducendo al baratro. Ogni battaglia culturale (e cioè ideologica) è una battaglia fine a se stessa, e diventa di retroguardia nella misura in cui si trovi a prendersela con gli effetti del problema che abbiamo invece di attaccarne al cuore la relativa causa.
Convinti – come siamo stati – che per liberarci da una cultura deteriore si debba fare appello ad una (contro)cultura sopraffina, e indotti dunque a ricercare in nuove arti, nuove ideologie e nuove religioni la cura ai mali di un mondo in cui è proprio la cultura/civiltà a stringere i lacci del nostro progressivo immiserimento (leggi: separazione dalla Natura), restiamo preda degli strumenti di cui la cultura/civiltà si serve per trasformarci da prigionieri in schiavi.
Con il nostro eros deviato verso la sublimazione di frustrazioni e sofferenza, con i nostri impulsi vitali sopraffatti dall’educazione, dall’istruzione, dalla manipolazione mediatica, dalla propaganda istituzionale, dalla moralizzazione della vita e della politica, e con la nostra rabbia trasformata in lamentela superficiale verso gli effetti del problema che ci sta dilaniando, restiamo sul carro che ci sta portando verso la resa senza condizioni. Restiamo le vittime sacrificali di quel meccanismo domesticatorio ormai palesemente improntato a una chiara ingegneria sociale che, anche grazie alla Grande Messinscena del Coronavirus, ci sta preparando a un mondo in cui non avremo più contatti umani tra noi, in cui le nostre persone saranno costantemente tecno-sorvegliate e la libertà sarà ridotta a un’espressione retorica pronunciata dagli organi di propaganda dei governi (televisione, radio, social media). Uno stato di emergenza permanente al quale sottomettersi in modo supino come schiavi che inneggiano alla loro sottomissione.
Leggere, rileggere, studiare, collegare, sentire col cuore (e non solo sol pensiero logico-razionale) è essenziale. Comprendere è essenziale. Prima ancora che scappare, occorre sapere da cosa si voglia scappare. Non serve a niente fuggire se non si sa da cosa.
Se non faremo lo sforzo di liberarci dalla civiltà (quella che innanzitutto si annida dentro di noi), e da quella mentalità culturale che abbiamo via via sovrapposto al nostro sentire selvatico messo da parte, quel che potremo fare è soltanto trasportare l’artificialità di cui siamo diventati portatori nei luoghi della fuga, così da contaminare anche quelli. Non serve riparare in campagna senza aver prima messo in discussione tutti quei burqa culturali che ci portiamo addosso; non serve aderire a eco-villaggi o ad altre analoghe esperienze alternative che riproducono, scimmiottandoli, i valori e le categorie di questo mondo in decomposizione (dalla cultura dello scambio equivalente a quella della divisione del lavoro; dalla struttura burocratica alla logica di sfruttamento della Natura). Tanto meno serve continuare a fare uso della Natura considerandola alla stregua di un rimedio. L’uso consumistico della Natura trattata come una forma di sollievo (fare passeggiate nel bosco per controbilanciare la pressione della vita cittadina; fare arrampicate e scalate così da stare meglio; eccetera) la riduce semplicemente a un palliativo, e dunque, oltre a reificarla, la tratta alla stregua di un balsamo, e cioè di un rimedio della Medicina.
La Natura non è una medicina! E le medicine non salvano la vita alle persone, sopprimono soltanto i sintomi dei problemi che abbiamo lasciandone intonse le cause! Sfruttare la Natura come fosse un balsamo, significa soltanto usarla, trarne profitto, farne uno strumento atto ad alleviare il peso di una vita in cattività. La Natura non è qualcosa che ci serve per sopportare meglio l’insopportabile, ma qualcuno da rispettare e col quale condividere la vita. La Natura è Madre Terra: non è utile, ma meravigliosa; non è pronta per noi, ma sempre presente; non è distraente, ma incantevole. L’uso consumistico di Madre Terra, esattamente come quello di animali e persone (dai cani/gatti agli amici che ci fanno da passatempo), resta uno squallido uso consumistico che può solo produrre e riprodurre vuoto e sofferenza. Perché ridurre la Natura a una terapia, e cioè a un mezzo che agisce con la stessa logica di quelli inventati dalla Macchina Sanitaria, serve solo a farne una forma di alleggerimento destinata a palliare gli effetti del problema senza mai toccarne le relative cause.
Occorre invece cominciare a prendersela con queste cause. Occorre cominciare a liberarsi dalla civiltà!
Per sfuggire al destino segnato di un mondo che corre come un treno verso il baratro, serve scendere dal treno. Ma siccome siamo stati resi dipendenti dai servizi di quel treno, e oggi non saremo più in grado di vivere senza quelli (servizi di alimentazione, di cura, di riposo, di divertimento, di vita), occorre prima di tutto riabilitare noi stessi a quella vita che fu prima di essere saliti sui suoi vagoni. Serve insomma attivare prima possibile quel percorso di de-civilizzazione che, agendo nella direzione diametralmente opposta a quella di una nostra sempre maggiore dipendenza dal Sistema e dei suoi servizi, ci rimetta nella capacità di vivere in autonomia.
Senza questa nostra riabilitazione progressiva alla vita libera e selvatica, senza questo nostro riappropriarci di un rapporto pieno e vivo con Madre Terra, senza la precisa volontà di mettersi in gioco in prima persona per liberarci dalla civiltà/domesticazione, nulla ci proteggerà dalla fine annunciata.
Merry Crisis and Happy New Fear!
Enrico Manicardi
PS) Per chi ancora si compiacesse di considerare la critica radicale alla civilizzazione come un’espressione marginale, pessimistica e catastrofista, della riflessione sullo stato delle cose, si ricordi che Buck alla fine si è salvato e, proprio rispondendo al Richiamo della Foresta (in inglese: The call of the Wild), ha abbandonato la civiltà per trovare rifugio nella selva. E anche se Jack London, travisando lo stato delle cose, ha interpretato la domesticazione di quel cane come un abbandono della civilizzazione e un ritorno alla vita primitiva, resta il fatto che Buck alla vita primitiva è poi tornato davvero, riprendendo a godere della sua libera esistenza.
PPS) Proprio per questo, e rivolgendomi a chiunque fosse mosso dall’interesse di dare seguito al proprio “richiamo della foresta”, voglio dire che può scrivermi all’indirizzo di posta elettronica: posta@enricomanicardi.it. Ma – lo ripeto per chiarezza – non per soddisfare chissà quale curiosità esotica verso un pensiero così particolare, e nemmeno per intrattenere una qualche corrispondenza epistolare fine a se stessa. Non abbiamo tempo da perdere per provare a rendere costruttiva, concreta e presente la possibilità di una “fuga consapevole” dalla prigionia della civiltà. Iniziare a fare quanto necessario per dare risposta a quel piccolo-grande “richiamo della foresta” che faccia capolino dentro di noi, è essenziale; e la necessità di metterci in gioco in prima persona per cominciare a dar voce a questo richiamo, impellente. Pertanto, non serve perdersi in chiacchiere senza significato, ma solo cominciare a rendere fattive e concrete le nostre chiacchiere piene di significato, così da poterle considerare come il primo contatto necessario tra cuori vivi che anelano Libertà e Felicità. La sintonia, premessa alla simpatia e primo puntello della complicità, parte dal rispetto reciproco. Per conto mio, quindi, compatibilmente con i miei impegni di vita e coi miei progetti pratici in corso, resto a disposizione per chi voglia seriamente approfondire la questione.
NB) Sul tema Coronavirus si ascoltino anche le interviste rilasciate da Enrico Manicardi a diverse radio locali, e caricate su questo sito (sezione “Interviste radio e tv” – parte “Audio”).
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[1] Cfr. TG BYOBLU, del 9 novembre 2020. Riportato in: https://www.youtube.com/watch?v=SDlbtQ5-hH4
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. W. BRIGGS, There is no evidence Lockdowns saved lives. It is indisputable they caused great harm, in: https://wmbriggs.com/post/30833/
[5] Cfr. J. LONDON, Il richiamo della foresta (1904), versione pdf tratta dal web: http://ciml.250x.com/archive/literature/english/jack_london/italian/il_richiamo_della_foresta_jack_london.pdf
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Cfr. J. LONDON, Zanna Bianca (1906), Sonzogno, Milano 1973, pag. 78.