Modena, 5 luglio 2020
IL PROBLEMA CHE ABBIAMO SI CHIAMA CIVILTÀ!
Dinanzi alla condizione degradata che la Grande Messinscena del coronavirus ha contribuito ad accentuare, sono tante le persone che oggi si chiedono: “cosa fare?”. Purtroppo, l’idea che basti porsi questa domanda per risolvere un problema riflette un modo di vedere le cose che è del tutto riduttivo, sviante. Siamo stati educati a fare così, ma è la maniera peggiore per affrontare le questioni che ci si presentano. Prima di chiedersi “cosa fare?”, infatti, è sempre necessario chiedersi quale sia il problema che abbiamo. Se, di fronte a un problema, ci chiediamo “cosa fare?” senza esserci prima chiesti quale sia il problema, non ce la potremo mai prendere con il problema (che ancora non conosciamo), ma solo coi suoi sintomi esteriori; ed è così la questione si complica invece di risolversi.
Ogni problema si manifesta sempre attraverso i suoi sintomi visibili, ma non sono quelli ad essere la causa del problema: ne sono solo gli effetti immediatamente riscontrabili all’esterno, le conseguenze dirette, gli indicatori, le spie. Se noi, davanti all’imperversare di un sintomo, invece di andare alla radice del problema (e cioè alla sua causa), ce la prendiamo con il sintomo stesso, potremmo solo sopprimere/nascondere quello, non risolvere il problema. Chi non giudicherebbe imbecille quel Tizio che, rientrando a casa e notando l’acqua fuoriuscire dal lavandino, si occupasse solo di asciugare il lago versatosi a terra, invece di correre prima a chiudere il rubinetto lasciato inavvertitamente aperto? L’acqua sul pavimento è l’effetto del problema, il sintomo. Il rubinetto aperto è la causa. Se si comincia a raccogliere l’acqua a terra senza aver prima chiuso il rubinetto, l’acqua continuerà inevitabilmente a scorrere e il problema non lo si risolverà mai. Semplice, vero?
Eppure, nel mondo alla rovescia in cui viviamo, siamo tutti costantemente chiamati a comportarci proprio come quell’imbecille del rubinetto. Lo facciamo in buona fede, non vi è dubbio; ma di solito ci comportiamo proprio come lui. Invece di indagare quali siano le cause dei problemi che ci affliggono, siamo presi dalla smania di eliminarne subito i sintomi, quelli che ci si parono davanti improvvisamente e che risultano immediatamente riconoscibili. Eliminati quelli, per noi il problema è risolto. Invece, eliminando i sintomi, non soltanto il problema non lo si risolve, ma ci si preclude per sempre la possibilità di comprendere cosa lo abbia originato; e l’illusione di aver sistemato le cose solo perché quel dato sintomo è stato nascosto, si trasformerà presto nella delusione di vedere altri sintomi manifestarsi. Dunque, a eliminare i sintomi non si appiana alcun problema, lo si perpetua. Lo si rende cioè eterno, fino al punto in cui esso diventerà cronico, ossia irreversibile. Superando infatti il suo punto-di-non-ritorno, nulla potrà più essere messo in campo per risolvere quel problema, nemmeno agendo sulle sue cause.
L’idea che davanti alle restrizioni domiciliari e alle altre vessazioni imposte in questi ultimi mesi dai governi (per ordine del Potere Sanitario Mondiale) ci si ritrovi nell’ansia di dover fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di agire subito, ci pone nella medesima condizione dell’improvvido detentore del rubinetto aperto. Tutti con l’attenzione rivolta a raccogliere l’acqua da terra (sintomo), in modo che il problema scompaia dalla nostra vista. Tutti a cercare stracci, spugne, idrovore. Tutti a correre dietro ai vari mercanti dell’asciugatura che, coi loro prodotti venduti al mercato delle illusioni, riescono a farci credere che il problema possa essere superato molto facilmente e senza tanto impegno: basterà solo comprare, aderire, firmare, fare una crocetta; oppure farsi trovare all’appuntamento in una piazza, perché tutti si possa sfogare la propria indignazione e ottenere che la rabbia confluisca nei canali istituzionali già predisposti per spegnerla: petizioni, appelli, suppliche all’Autorità, nuove elezioni politiche, referendum, denunce alla Procura della Repubblica. Dare alla gente la sensazione di aver fatto qualcosa per il cambiamento delle cose è fondamentale se si vuole mantenere inalterato l’andamento delle cose. Ricordate il Gattopardo, il celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa? In tempi risorgimentali, per scongiurare il pericolo di una caduta della monarchia, le frange più attente dell’alta nobiltà siciliana si prepararono al cambio di regime imposto dai “Piemontesi” attraverso Garibaldi, appoggiando Garibaldi stesso (che antimonarchico non era). Nelle parole pronunciate dal conte palermitano Tancredi Falconieri per annunciare il suo schieramento con i Mille, e convincere lo zio don Fabrizio Corbera (principe di Salina) della necessità di accelerare il tramonto borbonico proprio per evitare una destituzione della monarchia, è smascherata la funzione reazionaria di quel finto cambiamento di regime. «“Parto, zione, parto fra mezz’ora – annuncia Tancredi allo zio don Fabrizio –. Sono venuto a salutarti. […] Vado nelle montagne a Corleone; non lo dire a nessuno […] Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi”»[1]. E il principe, inorridito: «“Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconieri dev’essere con noi, per il Re”. Gli occhi [di Tancredi] ripresero a sorridere. “Per il Re, certo, ma per quale Re? […] Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”»[2].
Se vogliamo che questo mondo disamorato e cinico, alienato e tossico, brutale e burocratico, strutturato gerarchicamente e atrofizzato dalla comodità tecnologica rimanga così come è, e continui dunque a correre verso il baratro, bisogna che cambi del tutto la sua facciata esteriore. Far credere che il responsabile del nostro imprigionamento primaverile sia stato Giuseppe Conte, serve allo scopo: c’indirizza verso la soppressione dei sintomi del problema, distogliendoci dall’indagine delle cause di ciò che ci sta annientando.
Infatti, pensare che possa bastare la testa di Conte per ritrovarsi di nuovo in pace, magari denunciandolo alla Magistratura (come se i Tribunali non fossero una Istituzione del Sistema) e dando fiducia a qualcun altro che ci assicuri che se ci fosse stato lui a governare le cose sarebbero andate ben diversamente, non è soltanto ingenuo, ma perfettamente miope. E descrive la nostra immarcescibile disponibilità a farci continuamente illudere, imbrogliare, circuire da qualcuno. Non è forse l’idea che cambiando gli uomini al comando le cose possano andare meglio che perpetua da sempre la farsa elettorale? Non è forse questa illusione che ci avevano promesso anche i 5 Stelle di Conte, e prima di loro i liberisti del PD, e prima ancora i Partiti delle Mani Pulite, i Verdi, i Partiti della Democrazia Proletaria, i Psiup, Pdup, PSI, PCI e chi più ne ha più ne metta? Armati della precisa convinzione che questa sarà la volta buona, non ci curiamo dei miraggi ai quali continuiamo a credere da incorreggibili boccaloni che non imparano nulla dalla Storia né dalle loro esperienze, e ci preoccupiamo oggi di salvare la Costituzione (repubblicana), le Istituzioni (democratiche), la Scienza (vera), la Tecnologia (verde), l’Economia (circolare), e dunque il Potere (buono), invece della nostra Libertà. È così che il giochetto della nostra soggezione potrà perpetrarsi all’infinito, riportando all’ovile anche tutte quelle indomite pecorelle smarrite che, per un attimo, avevano sentito oppressivo e insopportabile il peso di questa Società, e avevano creduto di opporvisi.
Purtroppo, Giuseppe Conte non è la causa del problema che abbiamo, così come non lo è l’OMS né il Potere Sanitario Mondiale. E non è nemmeno Bill Gates o i Rockefeller. Questi sono solo i potenti che oggi guidano il tecno-treno in corsa verso il baratro. Se questo dovesse finir nel vuoto, anche coloro che lo guidano non si salveranno. Il problema è a monte: è la logica che produce i Conte, le OMS, i Poteri Sanitari Mondiali, i Bill Gates e i Rockfeller.
Oggi abbiamo l’Industria farmaceutica che ci perseguita, coi suoi finanziatori e direttori d’orchestra. Ieri era l’Industria finanziaria coi propri, ieri l’altro quella del Petrolio, prima ancora sono stati i totalitarismi novecenteschi e le monarchie. Nell’Ottocento era la società industriale con le sue fabbriche e la sua automazione alienante; nel Medioevo è stata la Santa Inquisizione con le sue condanne e le sue torture; prima ancora è stato l’Impero romano, l’Egitto faraonico, la civiltà teocratica babilonese. Tutti questi Regni, coi loro poteri, non sono calati dal cielo. Sono nati da una comune concezione: quella del dominio. Un’idea che abbiamo sviluppato con la nascita della Cultura, e che ha trovato la sua prima manifestazione fattiva sulla Terra diecimila anni fa, con l’avvento dell’agri-coltura.
Dissodare un terreno allo scopo di ottenere che lì vi nasca grano e là avena, significa imporre la propria volontà di comando alla terra. Addomesticare vuol dire dominare: vuol dire gestire, disporre, imperare. È la civiltà, insomma, con la sua forza addomesticatrice, che ci ha messo sulla strada sbagliata. È la civiltà, col suo procedere inarrestabile verso il controllo di tutto quel che esiste, che presiede al nostro continuo immiserimento. È la civiltà, con la sua logica del dominio e il suo potere, che ha prodotto le teocrazie antiche, gli imperi, le Sante Inquisizioni, le Rivoluzioni Scientifiche, quelle francesi, quelle “culturali”, il capitalismo industriale, i totalitarismi novecenteschi, le guerre mondiali, l’industria del Petrolio, dei Farmaci, del Digitale, della Finanza.
Cos’è in fondo la civiltà? Essenzialmente è uno stravolgimento di paradigma: quello che, diecimila anni fa, ha rovesciato un nostro modo naturale di concepire la relazione egualitaria con il mondo, infilandoci proprio nella direzione di un dominio del Vivente, ossia dell’ossessione per un suo controllo sempre più esteso, una sua sottomissione sempre più aggressiva, un suo addomesticamento.
Fino a diecimila anni fa, tutti gli esseri umani concepivano il loro ambiente naturale come un soggetto: una madre, Madre Terra. Con l’agricoltura, la Natura diventava invece un “oggetto”: non più qualcuno da amare, ma qualcosa da mettere a frutto, da sfruttare. La trasformazione del Vivente in cosa (che tecnicamente viene definita “reificazione”) è il motore della civiltà/domesticazione. Abbiamo iniziato a trasformare in cosa la terra (agricoltura) per addomesticarla e sottometterla ai bisogni umani, e da lì non ci siamo più fermati: abbiamo trasformato in cosa e addomesticato anche gli animali (allevamento), e poi le donne (società patriarcale), e poi gli uomini (schiavitù, servitù della gleba, lavoro “dipendente”, massificazione), e poi i bambini e tutto il resto. Oggi, ormai, quel termine agghiacciante col quale definiamo la Natura, e cioè “risorsa” (un capitale da sfruttare, appunto), lo utilizziamo anche per definire noi stessi: i lavoratori sono le Risorse Umane; i migranti sono le Risorse Economiche; i bambini e gli anziani sono le Risorse del Futuro, come ha ribadito ancora il 20 giugno scorso sulle pagine de L’Avvenire il giornalista cattolico Salvatore Mazza, interpretando le parole del Papa (dj) Francesco[3].
A forza di cosificare tutto e tutti, anche noi stessi siamo diventati cose: ci consideriamo come oggetti, ci trattiamo come oggetti, ci usiamo come oggetti e come tanti oggetti ci sfruttiamo reciprocamente. Se non faremo lo sforzo di agire sulle cause del problema che ci divora, e ce la continueremo a prendere solo con questo o con quell’altro sintomo, non faremo altro che cronicizzare la malattia. E parlo di malattia perché la civiltà è proprio patologica. L’intero sviluppo della civiltà infatti è ciò che la crea e, insieme, ciò che la trasporta verso la distruzione. È sempre stato così, e la Storia ce lo dimostra con esempi tragici.
In un paragrafo de L’ultima era ho tracciato un excursus della vita di alcune delle principali antiche civiltà della storia[4]. Ho raccontato di come sono finite (finite male!) tutte le antiche civiltà: dalla Mezzaluna fertile all’Africa; dall’Europa mediterranea all’America precolombiana; dall’Asia arcaica fino agli esempi più recenti di civiltà nate e poi schiacciate dal peso della loro stessa civilizzazione (come ad esempio la società Vichinga).
Quelle antiche culture si sono tutte estinte, e tutte seguendo il medesimo iter: originariamente nomadi, le relative popolazioni di raccoglitori-cacciatori passarono alla sedentarietà proprio attraverso l’agricoltura (che è infatti anche convenzionalmente considerata l’atto di nascita della civiltà). Divenute società agricole, e cioè Sistemi capaci di concepire la reificazione della terra per sfruttarla, cominciarono a coltivare i suoli, praticando appunto quella che l’antropologo statunitense Marshall Sahlins ha definito la “domesticazione neolitica delle risorse alimentari”[5] e che Niles Eldredge, il più noto paleontologo americano vivente, ha molto più praticamente considerato come una «“dichiarazione di guerra” agli ecosistemi»[6].
Sfruttare la terra, però, non vuol dire solo dichiarare guerra alla Natura. Vuol dire anche impegnarsi materialmente tutti i giorni in questa guerra. Vuol dire insomma lavorare la terra: è così che è nato il Lavoro. Prima dell’avvento dell’agricoltura gli uomini e le donne non lavoravano. Ancora oggi, la maggior parte delle comunità di raccolta e caccia non hanno un termine nelle loro lingue che definisca il concetto di “Lavoro”; quando questo termine esiste, spesso è identico a quello di “Gioco”, cosa che ci fa comprendere quanto siano comunque distanti dalla mentalità del lavoro (noi, che al contrario siamo terribilmente immersi in questa mentalità industriosa, sappiamo bene quanta differenza corra tra l’attività lavorativa e quella ludica).
Il lavoro dei campi è un lavoro duro e faticoso, perché – come dice quel noto proverbio – la terra è bassa da coltivare. Il frutto di quel gravoso lavoro andava dunque protetto dalle mire di chi avesse voluto appropriarsene senza aver mai speso un briciolo di fatica per ottenerlo: è così che sorsero i primi steccati in difesa della Proprietà (nascita della Proprietà privata). Ma questi recinti, che imprigionavano la terra così come gli umani addomesticati si erano già cominciati a imprigionare dietro ai muri di cinta delle loro città, non erano in grado di garantire che eventuali estranei riconoscessero quell’arbitrario gesto di privatizzazione di una terra che non è di nessuno. Chiunque avrebbe potuto divellere quelle recinzioni e godere di quei frutti coltivati che vi erano rinchiusi dentro. Andavano dunque difese le proprietà: è la nascita della Guerra. Appositi reparti di uomini addestrati solo a combattere, vennero armati in difesa delle proprietà; o per la conquista di nuove proprietà, di nuovi esseri viventi da sottomettere e trasformare in concubine, schiavi o oggetti sacrificabili agli dèi. Questi ultimi, del resto, avevano cominciato a spadroneggiare, posto che un’umanità sempre più separata dalla Natura aveva smesso di comprenderne i segnali e gli avvertimenti. Sordi alle comunicazioni della Terra, quelle popolazioni avevano cominciato a credere che le calamità naturali che ciclicamente si verificavano (tanto più esaurendo le terre con l’agricoltura), fossero un’espressione della vendetta di quella Natura, reificata in dio, che loro stessi avevano razziato e dominato. Temendone la ritorsione, avevano dunque smesso di ringraziare la Natura e cominciato a ingraziarsi il dio-natura con penitenze, offerte, immolazioni, sacrifici sempre più cruenti e crudeli. Così facendo avevano trasformato quella che un tempo era la vita libera e beata dei primitivi in un rituale di soggezione (e iniziazione) al quale tutti ora dovevano sottostare. Mentre i sorrisi cominciavano a sparire dai volti contriti dei membri di queste prime civiltà, si rafforzava in loro l’idea che la gerarchia sociale e il potere fossero inevitabili. La forza bruta capace di opprimere diveniva così un fattore considerato indiscutibile dell’aggregazione sociale, contribuendo a forgiare a sua volta società sempre più aggressive e prepotenti.
Ovviamente, già l’idea di formare degli eserciti aveva definitivamente rotto lo spirito egualitario delle comunità di raccoglitori-cacciatori. Per fare la guerra, infatti, ci vogliono i generali che danno gli ordini e i soldati che li eseguono senza discutere, andando a morire nei campi di battaglia. Guerra, cioè, non vuol dire soltanto sterminio in funzione del dominio, ma anche esistenza di Capi, Gerarchia, Società strutturata (non più comunità libera di persone). È così che nacquero i primi regni, le prime monarchie, i primi imperi. Ma società strutturata vuol dire essenzialmente discriminazione tra classi sociali: tra governanti e sudditi, tra ricchi e poveri, tra liberi e schiavi, tra uomini e donne. Una tale divisione sociale era foriera soltanto di problematiche irrisolvibili, soprattutto di ordine pubblico: come fare a garantire un’impossibile convivenza pacifica tra dominatore e dominato? Come fare a ottenere l’accettazione dell’ingiustizia sociale intrinseca al fatto stesso che qualcuno possa comandare e altri debbano solo obbedire? L’unico modo è quello di escogitare mezzi che abbiano proprio questa finalità: indurre ogni suddito all’accettazione passiva della propria condizione. Occorreva dunque progettare e attuare strumenti di pacificazione sociale che realizzassero l’effetto di garantire, a chi si trovasse in posizione di comando, che i sottoposti accettassero il loro stato di inferiorità senza ribellarvisi: è la nascita della Politica.
Come ha ricordato Bertrand Louart, la Politica, ossia l’arte di ben governare, nasce, nella sua forma moderna e attuale, «nelle città della Grecia antica, dalla necessità di mantenere insieme ciò che pure sembrava dover restare separato, cioè di costruire una città malgrado le opposizioni di interessi tra gli individui e le lotte tra le classi»[7]. La Politica, il più importante degli strumenti di imbonimento sociale, ha infatti questo scopo precipuo: abbindolare, irretire, illudere: promettere che tutto cambi perché tutto rimanga com’è. Anche oggi la Politica realizza perfettamente questa sua funzione, e i vari politicanti che si pongono alla guida dei moderni Partiti della Libertà eseguono il loro compito millenario con commovente spirito di emulazione.
Naturalmente, per quanto sia un potentissimo anestetico sociale, la Politica non può fare tutto da sola. Qualche “Spartaco” che non si lasci irretire dalle parole dei burocrati, e che continui a opporsi a tutto ciò che ritenga ingiusto, c’è sempre. Per essere efficace la Politica dev’essere supportata da altri elementi funzionali al mantenimento di questa falsa pacificazione sociale: elementi di convincimento subliminale ma anche di costrizione esplicita. Li chiamano ancora oggi strumenti del controllo sociale: dal patriottismo al sentimento religioso, dal costume sociale alla moralità, da quelli che Sabina Guzzanti definiva “strumenti di distrazione di massa” (arte, spettacolo, Televisione, tifo da stadio, e tutti quei mezzi che il giovane Étienne de la Boétie riassunse nella triade “bordelli, taverne e case da gioco” – oggi spacciati anche online) fino alle forme di coercizione diretta (Legge, Censura, Condanna di Tribunale, cultura della punizione), tutte le società civilizzate si sono sempre occupate di controllare i loro sudditi e di tenerli nell’ovile. Grazie appunto alla Propaganda, al Potere della Distrazione, alla Sorveglianza burocratica e alla Coercizione, tutto è sempre confluito nella necessità di far sorgere nei governati il bisogno di difendere le Istituzioni invece che loro stessi. Di far cioè loro credere che difendere le Istituzioni, il Bene Comune, l’Ordine Pubblico, il Buon Costume eccetera, sia come difendere loro stessi; e che, pertanto, salvare la Legge sia come salvare la Libertà.
Purtroppo, lottare per salvare la Legge (la Costituzione) invece della Libertà significa credere che la Legge sia la Libertà, mentre invece ne è solo una limitazione. «Fateci caso: ogni prescrizione di legge che parla di libertà, lo fa sempre e soltanto con lo scopo di limitarla, coartarla, impedirla. Leggere gli articoli della carta costituzionale italiana relativi ai cosiddetti “diritti di libertà” (articoli 13 e seguenti), è quanto mai istruttivo. “La libertà personale è inviolabile”, sancisce pieno di sé il primo (articolo 13). Che poi continua: “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge […]”. Anche il domicilio è inviolabile allo stesso modo (articolo 14) e cioè “[…] se non nei casi e modi stabiliti dalla legge”. Esattamente come tutte le altre “libertà” garantite dalla Costituzione, compresa quella di manifestazione del pensiero (articolo 21).
«La legge serve insomma solo per limitare la libertà, non per riconoscerla. Del resto, che bisogno ci sarebbe di “proclamare” una libertà che già esistesse? C’è forse una libertà sancita con atto scritto per dormire, per mangiare, per respirare, per grattarsi le orecchie, per fare l’amore? Solo quando la libertà di dormire, mangiare, respirare eccetera scomparirà, sarà attraverso la comparsa di una legge che ne proclamerà l’inviolabilità che essa cesserà di esistere (“La libertà di respirare è inviolabile… salvo che sia stato pagato il relativo canone d’uso all’Azienda Pubblica per la concessione dell’Aria e si sia in regola con i relativi adempimenti…”)»[8].
Per dirla in altro modo, la Legge trasforma la Libertà in Licenza, e cioè in una concessione fatta dall’Autorità, entro i limiti da essa stabiliti. È per questo che basta poi pochissimo all’Autorità per ottenere che quella concessione venga sospesa, ridotta, eliminata del tutto. Il fatto che in soli due mesi si sia potuto prendere ogni Costituzione del mondo e usarla come carta igienica su richiesta del Potere Sanitario Mondiale, ci dice appunto che la Libertà non è nelle carte o nei diritti, ma solo dentro i nostri cuori. Solo se vive in noi la Libertà non può mai essere sospesa: andate da una leonessa e prendetele il cucciolo per vaccinarlo nell’interesse del Bene Comune, e vedrete come quella mamma difenderà la sua Libertà e quella del suo cucciolo. E non lo farà appellandosi alla Costituzione o mandando una lettera di protesta all’ufficio reclami; tanto meno chiedendo all’Autorità di ottenere la grazia e di esserne risparmiata. Perché in natura la Libertà non si tocca! Ed è di solito difesa al prezzo della vita da tutti coloro che non siano ancora stati addomesticati. Solo in un mondo ammansito dalla Cultura, invece, la Libertà, trasformata in Licenza, giace nei diritti; ed è solo in un mondo ammansito dalla Cultura che essa può essere facilmente sospesa, vessata, espropriata o utilizzata in bagno per esigenze di evacuazione, senza nessuna reale Resistenza.
La civiltà è un disastro, e l’avvento dell’agricoltura ha portato con sé solo calamità. Con la coltivazione agricola, ad esempio, nacque la Scienza (col suo delirio di onnipotenza oggi perfettamente rivendicato, e tutto sintetizzato nella convinzione di saper far meglio della Natura); nacque la Tecnologia (braccio armato della Scienza e strumento di devastazione del mondo per il dominio, il controllo e il rimpiazzo del mondo stesso); nacque l’Economia (con la sua divisione del lavoro e l’idea assurda dell’interesse personalistico, che ha dato il via alla cultura dello scambio equivalente: dono remunerato, baratto, compravendita, commercio, usura, speculazione su tutti i fronti).
E tutto questo senza parlare dell’ammassamento della popolazione che, ridottasi a lavorare la terra, prese ad aumentare per braccia necessarie di numero, fino agli attuali folli livelli insopportabili di sovrappopolazione (7,75 miliardi di individui). E senza parlare, nemmeno, della Paura che, trasformata in Terrore, poté diventare subito uno strumento di governo delle persone (a loro volta sempre più trasformate in masse passive di cittadini ogni giorno più intimoriti dal Potere dell’Autorità). La figura dello Sciamano, che Murray Bookchin ha descritto come il figlio legittimo della cultura dell’autorità, è significativa al riguardo. Prima ancora che nelle funzioni di potere esplicito esercitate dal sovrano, la civiltà nasce nell’autorità dello stregone, suo precursore storico. Scrive in proposito il celebre autore de L’ecologia della libertà: «Lo sciamano è una figura strategica in qualsiasi studio della gerarchia sociale perché è lui […] che professionalizza il potere»[9]. Precursore della figura del moderno sacerdote e, insieme, di quella del re, lo sciamano è il primo specialista della storia della civiltà. Senza la sua presenza, e le sue funzioni, l’espropriazione delle competenze di specie che muove il processo stesso di domesticazione sarebbe stato fin troppo brusco e traumatico. La figura dello sciamano garantì la gradualità di questo processo tutto costruito sulle insicurezze di un’umanità sempre più estraniata dal proprio ambiente naturale e quindi facilmente terrorizzabile. Lo sciamano, scrive ancora Bookchin «è uno specialista della paura. Coniugando insieme la funzione magica e quella divinatoria, egli media tra il potere sovraumano dell’ambiente e le paure della comunità»[10]: proprio come fanno oggi i moderni sciamani in càmice bianco.
A chi ancora non avesse compreso l’essenziale funzione di recupero sociale che i tanti Messia della Liberazione attuano ancora oggi per far convogliare la rabbia popolare in sostegno alle Istituzioni che ci opprimono, basta guardare alla storia stessa della civiltà: a quel che accadde in tutte quelle società presiedute da sciamani, sacerdoti, sovrani e imperatori. Scrivevo altrove: «Quante rivoluzioni si sono compiute nel tempo e nei luoghi del mondo civile? Quanta calorosa energia vi è stata profusa? E quante vite umane ne hanno scontato il prezzo più caro? Eppure, questa totalità autoinglobante che chiamiamo civiltà non è mai stata smantellata. Perché? La risposta sembra una soltanto: tutte le rivoluzioni che si sono susseguite in questi diecimila anni di vita civilizzata non hanno mai intaccato i fondamenti della civiltà, e li hanno anzi rafforzati e rinnovati. Hanno cioè riprodotto la logica del Dominio; hanno salvato l’Economia coi suoi princìpi dello scambio equivalente e della divisione del lavoro; hanno fatto leva sulla Tecnologia (dell’epoca) fornendo un ulteriore supporto alla logica produttivista ed efficientista portata dalla civiltà. Hanno preservato dinamiche sociali fondate sulla Paura (quelle che da sempre animano le relazioni autoritarie del mondo civilizzato); hanno fatto appello alla Cultura, e dunque alla forza di suggestione promanante dall’arte, dal rito, dal mito, dalla religione (anche nella sua versione dichiaratamente atea o dell’Essere Supremo); hanno dato legittimità alla Scienza e al suo potere, alla Burocrazia e ai suoi meccanismi disumanizzanti, alla Politica e alle sue logiche massificanti e d’imbonimento sociale»[11].
È la civiltà il problema che abbiamo! E a chi sostenga che la civiltà è sempre esistita, basta ricordare che questa è solo l’ennesima balla propagandistica che impariamo a scuola. La civiltà non c’è sempre stata. Essa, anzi, ha solo (e sottolineo solo) diecimila anni, che è appunto una bazzecola di tempo se confrontata ai più di 3 milioni di anni di vita degli umani nel pianeta Terra. Comparando la durata della vita del genere umano a quella di una giornata composta da 24 ore, se ne ricava infatti un dato molto interessante: l’umanità ha vissuto fuori dalla civiltà dalla mezzanotte di questo ipotetico giorno solare fino alle ore 23 e 55 successive. In altre parole, la civiltà esiste da soli 5 minuti. Ma in questi 5 minuti ha pregiudicato tutto, ha immiserito tutto, ha scompensato tutto, fino ad arrivare a mettere in pericolo la nostra stessa esistenza sul Pianeta e quella del Pianeta intero.
Se non cominceremo a prendercela con la civiltà, ossia con questa Megamacchina che ci sovrasta, che si nutre di noi, che ci consuma e c’impone di farla vivere anche a costo della nostra vita, non avremo scampo. Se non cominceremo a prendercela con la Megamacchina, e continueremo a occuparci di chi la guida, getteremo la nostra esistenza e le nostre energie inutilmente; perché fin tanto che ci sarà la Megamacchina, ci sarà anche chi la guiderà.
L’idea che il problema non sia la civiltà, ma questo o quell’altro potere che oggi ci sconvolge, serve a tenerci nel recinto (e cioè sul treno che corre verso il precipizio): serve a non farci andare alla fonte del problema e a farcela prendere con questo o quell’altro effetto che ci sconvolge. E mentre cerchiamo di migliorare il tecno-treno sui cui siamo imprigionati, e lo facciamo appunto lottando per sostituirvi il conducente, ammodernando le carrozze, rendendo più comodi i servizi coi quali veniamo trattenuti e confermandone tutte le istituzioni e le sovrastrutture che rendono possibile il viaggio, noi continueremo a restare i viaggiatori sottomessi, ignari di correre verso il disastro.
Ogni comunità che abbia abbandonato quel rapporto di profonda unione con il tutto (quello che noi chiamiamo Natura) e abbia cominciato a dominare la terra (agricoltura) passando dalla condizione primitiva di selvatichezza a quella agricola di civiltà, ha innescato questo processo di civilizzazione che non si ferma da solo: ha cioè messo in corsa il treno verso il baratro.
E infatti, lo si è appena ricordato, tutte le civiltà del passato si sono estinte: sono cioè scomparse dalla faccia della Terra, eliminate, finite; e i loro abitanti sono tutti morti. Perché, come ha sintetizzato con eufemismo l’etnologo tedesco Herbert Wilhelmy: «Le grandi civiltà sorte a partire dal IV millennio prima di Cristo in tutte le parti del mondo […] hanno conosciuto un’epoca di fioritura e poi di tramonto»[12].
C’è un solo problema: quella attuale è ormai diventata una civiltà globale, e se ci sarà un “tramonto”, sarà un tramonto globale. Perché oggi non stiamo semplicemente consumando le terre attorno a casa (come fecero i Greci, gli Anasazi, i Maya o le culture della Valle dell’Indo), noi stiamo consumando il Pianeta. Non stiamo semplicemente combattendo i nostri confinanti (come fecero gli Egizi, i Romani, gli Aztechi, gli Incas, i Babilonesi o i Persiani), noi facciamo guerre mondiali.
Siamo in pericolo, e non per l’attività particolare di Giuseppe Conte. Se non fermeremo il tecno-treno che corre all’impazzata devastando il cielo, i mari, i fiumi, le foreste, le specie viventi e, ormai, anche i suoi ipotetici dominatori umani (vittime di farmaci, vaccini, mascherine, distanziamento sociale, sterilizzazione della vita, braccialetti elettronici, microchip, cibo transgenico, bioingegneria, transumanesimo), il nostro destino è segnato: non è un fatto di catastrofismo o di complottismo, ma di tempo. E siccome non basterà gettarsi all’ultimo dal treno in corsa per salvarsi, perché ormai siamo diventati talmente dipendenti dai servizi garantiti dalla direzione ferroviaria che senza quelli quasi non riusciamo a vivere (servizi di ristorazione, di riposo, di relazione sociale, di vita, di amore persino), quello che possiamo fare in questo tempo che ancora ci separa dallo schianto, è approfittarne per riabilitarci alla vita libera e selvatica. Approfittare cioè del fatto che il treno si ferma ancora alle stazioni per raccogliere nuovi passeggeri, e scendere dalla carrozza ritornando a riadattarci gradualmente a una vita primitiva, naturale, non-simbolica, selvatica. Più saremo in grado di recuperare la nostra autonomia di esseri viventi, ritornando a vivere naturalmente da esseri viventi (e non più da animali in cattività), più saremo in grado di lottare per difendere la nostra vita e non quel Treno in rotta verso l’abisso. «C’è bisogno di un “futuro primitivo” – scriveva già nel 1998 John Zerzan –, dove il regno cosificato della civiltà simbolica sia sostituito dal coinvolgimento vivente con il mondo e da una fiducia e intima partecipazione alla Natura»[13].
È adesso dunque che abbiamo ancora la possibilità di ritornare alla vita libera. Tagliare progressivamente i lacci che ci avvinghiano alla dipendenza dai servizi del Sistema per riuscire di nuovo a vivere senza quei servizi. Ritrovare la semplicità di una vita immersa in Madre Terra per ritornare a sentirne il calore, la forza protettiva, l’attenzione premurosa, la disponibilità accogliente e complice.
Da quando abbiamo smesso di sentirci parte della Natura, di vivere in sintonia e armonia con Madre Terra, e abbiamo iniziato a credercene superiori (cominciando a dominarla), sono nati tutti i nostri problemi. Questi poi si sono amplificati nei millenni, si sono sparsi ovunque proprio come metastasi. Il tutto fino ai giorni nostri in cui, grazie alla potenza acquisita dalla civiltà coi suoi fondamenti continuamente rafforzati e considerati inevitabili (Dominio, Cultura, Paura, Scienza Tecnologia, Economia, Potere) si è arrivati al limite di ottenere che un nugolo di affaristi protetti dal Potere Sanitario Mondiale, abbia potuto trasformare quella che era una terribile costellazione di regimi democratici in un ancor più prepotente Regime Unico Mondiale scientocratico che parla ovunque la stessa lingua (dalla Cina agli Stati Uniti d’America), si muove con le stesse logiche e corre ancora più veloce e prepotente verso la fine.
Se non riusciremo ad allargare lo sguardo a quel che c’è stato prima di 5 minuti fa, e continueremo a credere che la civiltà ci sia sempre stata, non potremo mai risolvere il problema che abbiamo, e continueremo a credere che il tecno-mondo triste e tossico in cui viviamo oggi sia inevitabile, e che si possa solo sperare di cambiarne il conducente, e di rendere l’economia sostenibile, l’energia pulita, la tecnologia verde, la scienza olistica, la giustizia giusta e il potere buono.
Siamo prigionieri della civiltà, ma non ancora schiavi. Occorre resistere alla prospettiva di essere tutti trasformati in schiavi di questo universo alla rovescia che spinge ognuno di noi a difenderlo solo perché ne siamo diventati dipendenti. La trasformazione dei prigionieri in schiavi è il trionfo di ogni civiltà, ciò che segna il suo punto-di-non-ritorno. Ed è una meccanica di soggezione già in corso anche oggi, proprio sulle nostre teste. Spesso, infatti, non ci consideriamo soltanto degli esseri umani che vivono in gabbia (prigionieri), ma degli individui addomesticati che difendono la loro condizione di cattività (schiavi). Individui cioè che credono nella civiltà, che la sentono emancipatrice e nobilitante, che la giudicano irrinunciabile, e che dunque la proteggono, la difendono, la perpetuano attivamente.
Abbiamo sviluppato una tale assuefazione alle relazioni di dipendenza, che ci sembra quasi impossibile pensare di poter vivere affrancati dalla civiltà. Tuttavia, lo ricordava più di cento anni fa l’anarchico Errico Malatesta, la questione è sempre quella «dell’uomo legato che, essendo riuscito a vivere malgrado i ceppi, crede di vivere a causa dei ceppi»[14]. La direzione lugubre che assume ogni percorso di domesticazione, guarda esattamente al raggiungimento di questa attesa: infondere la convinzione intima che si stia vivendo grazie ai ceppi e non malgrado questi.
Noi però non viviamo grazie agli espedienti della civiltà, ma nonostante quelli; e la capacità di convincersene è appunto determinante.
Noi, ad esempio, crediamo di essere fortunati a vivere nelle città e non nei boschi, perché pensiamo di poter disporre di servizi insostituibili, infrastrutture, beni ed opportunità. Quello di cui non ci rendiamo conto è che quei servizi, nati dall’espropriazione delle nostre naturali competenze di autonomia, servono solo per vivere in gabbia. Le città non sono soltanto luoghi cementati, ma totalmente artificiali, non autosufficienti e che hanno appunto bisogno di essere alimentati continuamente dall’esterno con un impressionante impegno quotidiano di mezzi e di persone. Guardando alle cose per come sono, dunque, noi «non viviamo grazie alle città e alle spoliazioni operate dall’urbanizzazione del Pianeta, ma nonostante queste aggressioni; e cioè nonostante il fatto che l’inurbamento abbia determinato un concentrarsi di individui in un contesto ambientale letteralmente strappato alla Natura per essere raso al suolo, pianificato negli spazi, lastricato, edificato, sterilizzato da ogni contatto con la vita e offerto a un’umanità sempre meno umana che vi ha potuto perdere la capacità di sovrintendere autonomamente ai processi della propria sussistenza: procacciarsi cibo, ripararsi dalle intemperie, costruirsi utensili, amare liberamente, condividere la vita con senso di responsabilità, spostarsi in modo assolutamente franco e non condizionato»[15].
Noi non viviamo grazie ai rimedi della civiltà, ma nonostante quelli. «Nonostante l’agricoltura che, lungi dal sostentarci, esaurisce progressivamente i suoli del mondo e le persone che vi confidano. Nonostante gli apparati militari che, lungi dall’occuparsi di “difesa”, servono ad offendere, trascinandoci in guerre politiche o religiose che garantiscono solo la perpetuazione della Megamacchina, non la tutela della libertà individuale. Viviamo nonostante le gendarmerie e le polizie del mondo le quali, lungi dal proteggerci dalla criminalità, si curano che essa non venga a mancare del tutto, pena lo smantellamento del loro potere e dei loro traffici»[16].
Noi non viviamo grazie ai rimedi della civiltà, ma nonostante quelli. Nonostante la Scienza che, invece di consentirci di acquisire una conoscenza reale del mondo, si occupa di dominare il mondo, di manipolarlo, di sottometterlo, ottenendone ovviamente risultati sempre più disastrosi. Nonostante la Tecnologia che, in quanto braccio armato della Scienza, realizza la logica del distanziamento dal mondo reale imposto dalla Cultura, sostituendosi coi suoi aggeggi alle nostre competenze di specie fino a renderci dei disabili totalmente alla mercé di questi suoi congegni. «Nonostante i farmaci, perfino, che invece di allenare le persone a cercare di comprendere gli stati di malessere, ne sopprimono i segnali più esteriori avvelenandole e rendendole dipendenti dalla loro somministrazione»[17].
Per quanto l’aggressione portata dalla Cultura ci renda sempre più irriconoscibile il nostro mondo reale, spingendoci a sostenere quello artificiale che ormai spara a raffica anche contro la nostra stessa natura (con la genetica, la bioingegneria, il transumanesimo), ad oggi siamo ancora umani. Siamo cioè ancora in grado di riconoscere e mettere in discussione quell’universo folle che vuole toglierci di mezzo. Per cominciare a farlo, possiamo iniziare col combattere la civiltà che alberga dentro di noi. La domesticazione, anima della civilizzazione e sua istituzione portante, non può rafforzarsi senza la nostra collaborazione. Occorre allora cominciare a smettere di dare la nostra collaborazione: trasformarci in irriducibili oppositori della civiltà che intraprendono il loro cammino per mettere quella fuori di sé. “Decivilizzare noi stessi per decivilizzare il mondo”, scrivevo in chiusura di Liberi dalla civiltà: «sovvertire il nostro approccio strumentale alla vita perché la vita cessi di essere quel luogo anonimo e vuoto che è diventato oggi. Lottare per un’esistenza libera immersa in una natura libera prima che le dipendenze e i diktat di questo mondo in distruzione ci travolgano tutti: noi e il mondo»[18].
Il Pianeta al collasso, l’alienazione umana in costante espansione, la corrosione di ogni senso della vita e la corsa verso la fine della vita stessa così come l’abbiamo sempre concepita, non sono l’effetto di una sceneggiatura distopica da film apocalittico, ma la direzione sempre più chiara verso cui conduce la folle guerra alla Natura dichiarata diecimila anni fa.
Liberarsi dalla civiltà non è facile né immediato, ma è possibile: ed è l’unica via che abbiamo per non lasciarci sopraffare del tutto. Iniziare a liberarsi dalla civiltà implica un impegno assiduo, costante, tessuto di umiltà e di voglia di mettersi in gioco continuamente; implica il desiderio ancora vivo di apprendere modalità, maniere, dinamiche che attengono ai rapporti naturali con gli altri, con se stessi, con la Vita. Ma proprio per questo, liberarsi dalla civiltà significa anche riuscire a toglierci di dosso ciò che ci separa dal nostro mondo interiore. Dunque, è anche un percorso assolutamente delizioso, gioioso, gravido di aspettative di felicità; come lo è persino il semplice riempirsi ogni giorno della prospettiva di una fuga ancora possibile.
Vivere è meraviglioso, e tornare a sentire palpitare la vita nel cuore e nella carne è sublime. Dobbiamo liberarci dalla civiltà prima che la civiltà si liberi di noi. Per sempre!
Enrico Manicardi
NB) Sul tema Coronavirus si ascoltino anche le interviste rilasciate da Enrico Manicardi a diverse radio locali, e caricate su questo sito (sezione “Interviste radio e tv” – parte “Audio”).
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[1] Cfr. G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo (1958), Feltrinelli, Milano 1980, pag. 20.
[2] Ibidem, pag. 21. (Il corsivo è mio).
[3] Cfr. S. MAZZA, Bambini e anziani le risorse di futuro, in «avvenire.it» del 20 giugno 2020. Riportato in: https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/bambini-e-anzianile-risorse-di-futuro
[4] Il riferimento è al paragrafo IX dal titolo: La maledizione ecologica e sociale della civiltà: un monito da prendere sul serio. Si veda: E. MANICARDI, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà, Mimesis, Milano – Udine 2012, pag. 89ss.
[5] Cfr. M. SAHLINS, L’economia dell’età della pietra (1972), Bompiani, Milano 1980, pag. 90.
[6] Cfr. N. ELDREDGE, La vita in bilico. Il pianeta Terra sull’orlo dell’estinzione (1998), Einaudi, Torino 2000, pag. 244.
[7] Cfr. B. LOUART, Il nemico è l’uomo (1993), Quattrocentoquindici, Torino 1999, pag. 50.
[8] Cfr. E. MANICARDI, L’ultima era, cit., pag. 249.
[9] Cfr. M BOOKCHIN, L’ecologia della libertà (1982), Elèutera, 1995, pag. 138.
[10] Ibidem, pagg. 138-139.
[11] Cfr. E. MANICARDI, L’ultima era, cit., pag. 158.
[12] Cfr. H. WILHELMY, La civiltà dei Maya (1981), Laterza, Roma – Bari 1985, pag. 489.
[13] Cfr. J. ZERZAN, Senza via di scampo? Riflessioni sulla fine del mondo (2002), Arcana, Roma 2007, pag. 90.
[14] Cfr. E. MALATESTA, L’anarchia e il nostro programma (1891), La Rivolta, Ragusa 1993, pag. 28.
[15] Cfr. E. MANICARDI, L’ultima era, cit., pag. 151.
[16] Ibidem, pag. 152.
[17] Ibidem, pag. 152.
[18] Cfr. E. MANICARDI, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia, Mimesis, Milano – Udine 2010, pag. 521.